di Massimiliano Sardina
All’inizio però più che il cinema agì la letteratura, complice la ricca biblioteca di famiglia. Un testo tra tutti lo segnò profondamente: I racconti del Grottesco e dell’Arabesco di Edgar Allan Poe «… Lo lessi da cima a fondo, e poi ricominciai dalla prima pagina. Un po’ alla volta, inoltrandomi nelle sue storie, mandandole a memoria, mi resi conto che era come se avessi
trovato la chiave di una stanza che c’era da sempre nella mia testa, ma di cui ignoravo l’esistenza.». L’incubazione fu piuttosto lunga e il giovane Dario, prima di focalizzare la sua fascinazione su un versante strettamente registico, s’imbatté in una gavetta da giornalista, recensore e critico cinematografico; a diciassette anni, abbandonati gli studi liceali, entrò nella redazione dell’«Araldo dello Spettacolo» e, successivamente, in «Paese Sera». Questi anni, scanditi da centinaia di pellicole visionate, funsero da palestra e da laboratorio sperimentale. Il passo dalle recensioni ai primi abbozzi di soggetti e sceneggiature per il cinema fu breve. «… Ormai le storie che abitavano nella mia testa scalpitavano, chiedendo a gran voce la mia attenzione, implorando di essere scritte.». Fondamentale si rivelò nel 1966 l’incontro con Sergio Leone (insieme a un altrettanto giovane Bernardo Bertolucci, Argento collaborò al trattamento del film C’era una volta il west). Dopo questa fortunata esperienza l’aspirante regista Dario Argento cominciò a collaborare attivamente in diversi film, e nell’ambiente degli addetti ai lavori il suo nome prese così a circolare più diffusamente. Conquistata una credibilità ora non restava che proporsi come regista tout court e, dopo qualche difficoltà, vennero finalmente a crearsi le condizioni favorevoli.Un sostegno concreto arrivò anche dal padre Salvatore Argento, già da diversi anni attivo nel cinema anche in veste di produttore. Per sostenere parte dei costi di lavorazione di questo fantomatico primo film, papà Argento fondò la SEDA spettacoli (dall’unione dei due nomi Salvatore e Dario Argento). Il 19 febbraio 1970 esce finalmente nei cinema L’uccello dalle
piume di cristallo. Il film incassò oltre un miliardo di lire e trionfò subito dopo anche in America con il titolo The bird with the crystal plumage. Primo capitolo di una “trilogia zoologica” cui seguirono Il gatto a nove code (1971) e 4 mosche di velluto grigio (1971). Fu subito chiaro a tutti, anche alla critica più prevenuta, che queste pellicole avevano inaugurato un nuovo genere cinematografico, un genere che, pur prendendo le mosse dal giallo hitchcockiano, dal thriller e dall’horror movie, si spingeva ben oltre sconfinando dichiaratamente nella morbosità. Fin dagli esordi il cinema argentiano tenta una visualizzazione, una trasposizione iconografica del perturbante freudiano. È Freud, ibridato a certe atmosfere di Poe, il vero ispiratore della poetica argentiana. Attratto dai lati più oscuri, misteriosi e contorti della psiche umana, Argento si concentra sull’intreccio di storie complesse dove menti malate e perverse emergono dall’ombra per sfogare, con l’esercizio estetizzante e rituale della violenza, la psicopatologia sottesa al loro trauma. Un manifesto in questo senso è Profondo rosso, che uscì nelle sale nel marzo del 1975 consacrando Dario Argento “Maestro del Brivido”. In Profondo rosso – che inizialmente doveva intitolarsi La villa del bambino urlante – l’estetica argentiana si precisa e si palesa. «… Neppure io smettevo di interrogarmi su che cosa stessi facendo con il mio cinema. Una pellicola dopo l’altra,
Se nella “trilogia zoologica” le colonne sonore portano la firma di Ennio Morricone, in Profondo rosso compaiono per la prima volta Gaslini e i Goblin. Il fortunato sodalizio con i Goblin connoterà gran parte della produzione successiva di Argento, in un singolare (e inutilmente imitato) connubio tra suono e immagine, tra suggestioni sonore e sequenze visive. La musica nel cinema di Argento, lo ribadiamo, è elemento attoriale, è materia viva nella struttura narrativa. Al tappeto sonoro della filmografia argentiana va intrecciato anche il tópos della “dispercezione uditiva”: «… spesso i miei personaggi, prima di morire, credono di sentire il proprio nome bisbigliato dall’assassino.». In Profondo rosso, come già in 4 mosche di velluto grigio, compare un’altra incarnazione del perturbante freudiano: l’automa (il pupazzo), un oggetto-soggetto che scimmiotta l’umano privandolo al contempo di ogni emozione. Altra costante nel cinema di Argento è la presenza di personaggi dichiaratamente omosessuali, sdoganati con assoluta normalità (per restare a Profondo rosso si pensi ai personaggi di Carlo e Massimo). Sullo sfondo la “magica” Torino, una location particolarmente amata dal regista. Il film successivo (1977) è Suspiria, considerato un capolavoro anche dalla critica più severa.
Scritto a quattro mani con la compagna Daria Nicolodi, Suspiria è una favola nera narrata in toni espressionistici, una storia di streghe ambientata in un’accademia di danza. Il soggetto è liberamente tratto dal Suspiria de profundis di Thomas de Quincey, dove si parla di tre Dolori contrapposti a tre personificazioni benigne; le tre sorelle e madri Suspiriorum, Tenebrarum e Lacrimarum torneranno prepotentemente nel film successivo Inferno (1980). Al di là della trama e al di là delle scene cruente, quello che caratterizza il film sono i colori innaturali e saturi, estremamente affascinanti; illuminati dai violenti viraggi rossi, viola e blu, i volti sembrano sfumare in effetti pittorici (un dichiarato omaggio al cinema espressionista tedesco, qui rivisitato in chiave gothic-fauve). Anche in Suspiria la colonna sonora dei Goblin gioca un ruolo fondamentale. Inferno, altro capolavoro onirico di Argento, vanta una straordinaria colonna sonora composta da Keith Emerson. Anche qui a farla da padrone sono i toni favolistici virati nei pervinca e nei ciano. La trilogia verrà completata più di vent’anni dopo (La terza madre, 2007). Suspiria e Inferno sono i film più complessi e sperimentali della filmografia di Argento, e per entrambi è stata fondamentale la collaborazione di Daria Nicolodi. Nelle pagine dell’autobiografia – puntellate di aneddoti legati ai set e di numerose curiosità – Argento passa in rassegna la tormentata e complessa genesi di ogni singolo film, soffermandosi in modo particolare sui lavori più riusciti (da Profondo rosso a Opera). «Il mio è un cinema idealista, fatto di visioni, di incubi e di moltissime letture. Il mondo di fuori, il caos che governa i destini degli uomini, non ha mai inquinato la mia immaginazione.».Quello di cui Argento non parla è il declino qualitativo del suo cinema dalla fine degli anni ’80. Tra Phenomena e Giallo, qualitativamente parlando, ci passa l’oceano Atlantico. In film come Trauma, Non ho sonno, La sindrome di Stendhal… si rintracciano senza fatica virtuosismi registici e soluzioni di tutto rispetto (ma, con ogni evidenza, non è abbastanza). La terza madre è stata un’occasione perduta (nonostante molte sequenze ben riuscite e l’ottima colonna sonora). Cedimenti a parte, quello di Dario Argento è stato, e resta, un cinema di potente suggestione. Paura, curata da Marco Peano per Einaudi, è una cine-autobiografia, un racconto che sembra dispiegarsi come un unico piano sequenza, un ciak che da Il fantasma dell’Opera di Arthur Lubin (1943) arriva fino a The Sandman, l’hoffmanniano omino di sabbia protagonista del nuovo progetto in cantiere del “Maestro del Brivido”.Massimiliano Sardina
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