“Patologie” dello scrittore russo Zachar Prilepin è prima di tutto un romanzo di guerra teso e particolareggiato, pervaso da un crudo realismo che non lascia spazio ad alcun tipo di retorica bellicista: la guerra dei Russi contro i loro nemici storici, quei Ceceni che reclamano l’autonomia della loro terra e una loro repubblica, non viene né eroicizzata né idealizzata, come accade spesso in letteratura; è una guerra reale, crudele, ingiusta e vigliacca: è la guerra che lo stesso Prilepin ha conosciuto di persona (lo scrittore russo, infatti, ha combattuto in Cecenia dal 1996 al 1999).
Il protagonista del romanzo è Egor Taševskij, giovane e sensibilissimo comandante di squadra appartenente agli OMON, i corpi speciali russi tra le cui fila aveva combattuto anche Prilepin.
L’unità comandata da Egor è di stanza a Grozny, precariamente accampata in una scuola abbandonata che per i soldati ormai rappresenta l’intero mondo, il loro mondo, una realtà parallela fatta di lunghe, snervanti attese e cecchini appostati, di agguati notturni e armi puntate, di sangue fresco e cadaveri orrendamente dilaniati, che nessuno osa piangere.
Quella che all’inizio per il plotone sembrava quasi una gita in campeggio, non tarda dunque a svelare il suo vero volto: trasfigurati dalla divisa che indossano, i giovani soldati cessano di essere semplicemente se stessi per diventare delle marionette in carne e ossa, caricature esasperate nei loro modi di essere che la guerra ha trasformato, appunto, in vere patologie (un esempio emblematico di questa trasformazione sono i loro soprannomi: Infame, Monaco, Stornello, ecc.).
I loro rapporti sono improntati a una strana forma di fratellanza, tipica della guerra, cementificata da un nemico comune e dai pericoli mortali che minacciano tutti allo stesso modo.
A questa regola non sfugge nemmeno Egor, che vede riacutizzarsi le sue antiche ossessioni e che per la prima volta prende coscienza di quanto gli importi vivere: proprio stando a stretto contatto con la morte, infatti, il giovane capisce che vuole davvero vivere, che in guerra la posta in gioco – la vita degli uomini – è assurdamente e inutilmente alta.
Tra le scene di guerra – serrate, tese, caratterizzate da dialoghi secchi che rimbalzano come palline da ping-pong e da un linguaggio spesso troppo cruento – di tanto in tanto fanno capolino immagini di vita quotidiana, istantanee risalenti all’infanzia del protagonista o alla sua storia con la bella Daša, rimasta a casa ad aspettarlo.
I ricordi di Egor vengono trasfigurati dalla memoria, la fidanzata e la vita in tempo di pace vengono evocati come sogni a occhi aperti, circondati da un’aura di tenerezza e malinconia, con un linguaggio che evoca bene sensazioni come il rimpianto e la tristezza.
La figura di Daša risalta in maniera particolarmente sensuale, ma la felicità dell’amore per la giovane si perde presto nel labirinto di ossessioni e gelosie che affliggono Egor fin dalla primissima infanzia, da quando, cioè, suo padre e morto e lui si è attaccato in maniera morbosa a una cagnetta di nome Daisy. Allo stesso modo, nel rapporto con la sensuale Daša il giovane non riesce a prescindere dal passato di lei, dagli uomini che ha avuto prima di lui; l’ossessione lo rende profondamente infelice, eppure egli prova un gusto quasi perverso nel crogiolarsi nel proprio dolore, nell’insistere col pensiero e col ricordo sugli argomenti che gli fanno più male.
Il suo sottile masochismo si scontra tuttavia con la lineare semplicità di Daša, il cui amore è inconsapevolmente crudele, oltre che insufficiente per sua stessa natura: per quanto grande, infatti, nessun amore è in grado di colmare il vuoto affettivo di Egor, sospeso in una dimensione solo sua, una dimensione patologica per vocazione, che vede nella guerra il suo coronamento ideale.
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