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Quasi ogni giorno che passa si incarica di smentire un luogo comune sul rapporto tra Sardegna e Italia, tra governo sardo e governo italiano, e di confermare le buone ragioni della domanda che si è posta la maggioranza del Consiglio regionale: vale ancora la pena di far parte della Repubblica italiana? Il luogo comune, caro sia alla destra sia al centro sia alla sinistra, è quello secondo cui la qualità di tale rapporto cambia con l'avvicendarsi dei governi in Italia e in Sardegna, “amici” quando le due amministrazioni sono dello stesso colore, “avversarsi” quando lo sono i due governi. E capita lo stesso con governi “neutri”, perché tecnici, come quello attuale di Mario Monti. Il governo Prodi bocciò leggi care al centrosinistra sardo, quello Berlusconi fece così con leggi del centrodestra sardo, l'attuale dimostra come il problema vero non è lo schieramento che pro tempore governa la Sardegna, ma la Sardegna stessa e l'incapacità della politica di far fronte comune a difesa dell'autonomia, per misera che sia. Ieri, anche Monti, come già Berlusconi e Prodi e su su per li rami, ha rinviato alla Corte costituzionale la legge finanziaria: alcune sue norme inciderebbero sulla competenza dello Stato. Il fatto è – naturalmente – che sono tali competenze dello Stato a rendere impossibile un corretto esercizio dell'autonomia sarda e che c'è un'unica possibilità per dirimere la questione: modificare il rapporto fra Sardegna e Italia o, come suggerisce l'ordine del giorno del Consiglio regionale, smettere di far parte della Repubblica italiana. Si può poi discutere se la soluzione sia l'indipendenza o l'acquisizione di tutta la sovranità necessaria. Se il neo-centralismo montiano fa il suo mestiere, qual è la reazione dei partiti che in Sardegna si oppongono al governo sardo bocciato da Mario Monti? Forse che in nome della comune appartenenza a una entità autonoma, si tappano il naso e difendono una legge del Parlamento sardo? Macché. Gioiscono della bocciatura e chiedono le dimissioni del presidente della Regione e – conseguentemente – lo scioglimento del Consiglio regionale. Si badi bene, questa follia non è appannaggio esclusivo del centrosinistra: le stesse reazioni ebbe il centrodestra quando Prodi bocciò le leggi dell'epoca Soru e particolarmente quella che nominava la sovranità del popolo sardo. Sono riflessi pavloviani che non si curano, essendo istintivi, degli effetti sugli amministrati e sulla qualità dell'autonomia sarda. Il mancato controllo delle ghiandole digestive porta a questo e ad altro: sull'altare dello scontro sempre e comunque si sacrificano anche i buoni sentimenti autonomistici che, pure, di tanto in tanto affiorano in questo personale politico, se non altro come sentore di una voglia di indipendenza che aleggia anche intorno ad esso. Chi gioisce oggi e chi ha gioito ieri per le manifestazioni antiautonomiste dei governi italiani, a me paiono come dei fanciulli che di fronte a una sconfitta inflitta loro dai compagni di gioco chiamano a difesa i genitori o, in ogni caso, se la ridono se i vincitori sono puniti da qualcuno più grande di loro. Se in Consiglio regionale si perde una partita, quella sulla Finanziaria oggi o sulla Statutaria ieri, non ci si attrezza per vincere la prossima: si fida nel babbo Stato e nella sua insofferenza nei confronti dell'autonomia sarda. Un malcostume di cui non sono afflitti solo i partiti sardi, però. La Corte costituzionale è il rifugium pecatorum anche di altri perdenti come alcuni accademici della Università di Sassari, e di dove se no?, che vorrebbero l'intervento della Consulta per rimediare ai disastri che potrebbero combinare i risultati dei referendum della scorsa settimana. Il babbo chiamato a risolvere i guai, insomma, fatti da bambini cui è stata concessa troppa autonomia.
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