Grillo rappresentava questa minaccia. La protesta va capita e rispettata ma quella di Grillo non era solo un movimento antieuropeo di protesta come quella di tanti altri Paesi. Non era nemmeno come la signora Le Pen (il peggio di quella vecchia cosa che è lo sciovinismo francese). Esprimeva un oscuro sentimento di odio per la democrazia che in Italia ha radici profonde, il rifiuto dell’ordine civile, la rabbia contro tutto e tutti. Era un attentato allo stare insieme pacifico degli italiani.
Io ho sentito molto questa minaccia, forse perché sento molto la fragilità dello Stato e ormai anche della nazione italiana. Sentivo che se Grillo si permetteva questo modo di essere e di parlare non era per caso. Era perché la crisi italiana era giunta a un punto estremo. Non era solo una crisi economica e sociale. Era diventata una crisi morale, di tenuta della democrazia repubblicana e parlamentare. Questo era il tema delle elezioni. E qui io ho misurato il grande merito di Matteo Renzi. Non è vero che faceva il gioco di Grillo scendendo sul suo terreno, come qualcuno mi diceva. Egli ha avuto l’intelligenza e la forza di affrontare quella che non era affatto una sfida sui «media» e nel salotto di Vespa. Era il dilemma reale tra speranza o sfascio. Certo, ha contato moltissimo anche la singolare figura di quest’uomo di cui non spetta a me fare l’elogio. Dico però che il suo straordinario successo personale non è separabile dal fatto che Renzi si è presentato come il segretario di quel «partito della nazione» di cui discutemmo a lungo ma senza successo anni fa con Pietro Scoppola al momento della fondazione del Pd.
Il problema di adesso è che allo straordinario successo deve corrispondere la consapevolezza delle responsabilità enormi che pesano sul Pd e in particolare sulle spalle di Renzi il quale - tra l’altro - è diventato, di fatto, il leader della sinistra europea. Renzi lo sa. Egli stesso ha detto che adesso non ci sono più alibi per non fare le riforme. Ma bisogna smetterla con la vergogna di chiamare «riforme» l’austerità e il massacro dei diritti del lavoro. È il modo di essere della società italiana che va messa su nuove basi, anche sociali. Si tratta davvero di dar vita a un «nuovo inizio». So benissimo che i margini sono strettissimi e certi vincoli vanno rispettati. Ma un nuovo inizio (lo dico anche a certi amici del Partito democratico) è reso necessario dal fatto che è finita l’epoca dell’economia del debito e del mercato senza regole. Anche per l’Europa.
Il cuore della questione sta qui, sta nel fatto che la partita, oggi, si deve giocare attorno alla capacità dei sistemi socio-economici di integrare la crescita economica con un nuovo sviluppo sociale e umano. Io penso che sta qui il banco di prova dei nuovi dirigenti del Pd. Sta nella necessità di costruire un partito e non solo una organizzazione elettorale, un partito-società, un luogo dove si forma una nuova classe dirigente e dove si possa elaborare un disegno etico e ideale. Senza di che ce le scordiamo le riforme.
Io ho vissuto la catastrofe dell’8 settembre del 1943. Ho visto come allora un gruppo di politici giovani (meno di 40 anni) si rivolsero a un popolo che allora era ridotto a una massa di profughi in fuga dalla guerra e dal collasso dello Stato. Quei giovani riuscirono a unire quel popolo sotto grandi bandiere, bandiere politiche e ideali, non tecnocratiche. So bene che tutto è cambiato da allora. Ma l’Italia di oggi è ancora uno dei Paesi più ricchi del mondo e al governo ci siamo noi. Non basta sostenere il governo in Parlamento.
Occorre spingerlo verso nuove scelte di fondo partendo dal paese, dai bisogni e dalle sofferenze della gente. La prudenza, il realismo vanno benissimo, sono virtù che servono anche nelle situazioni «eccezionali». Ma non bastano. L’Italia è in un pericoloso stato di «eccezione». Il voto di domenica è consolante ma esso ci chiede un messaggio forte che dia un senso ai sacrifici e al rigore. Stiamo attenti. La crisi sta intaccando il tessuto stesso della nazione, e io uso questa grande parola quale è «nazione» perché è di questo che si tratta. Non solo dell’economia e nemmeno solo delle Istituzioni. Si tratta di un oscuramento delle ragioni dello stare insieme. Sono troppi, non solo tra i giovani, quelli che vogliono andare a vivere all’estero.
È una crisi «morale», di sfiducia nel Paese, aggravata dalla latitanza delle elite e dalla pochezza delle classi dirigenti politiche. Tutta la questione del Pd e di chi lo guiderà ruota intorno alla capacità o meno di dare una risposta a una crisi di questa gravita.