Postato il novembre 17, 2011 | LETTERATURA | Autore: Mario Turco
È con interesse sociologico che ogni tanto leggo anche best seller. Individuare gli ingranaggi del cervello della massa tramite la lettura di alcuni clamorosi successi editoriali spero che, prima o poi, mi aiuti a capire gli Altri, così dolorosamente avulsi da me. Mi sono avvicinato a Daniel Pennac con il solito snobismo del critico invidioso del successo che tanto ha arriso allo scrittore francese. Con cautela, ho cominciato a conoscerlo dai suoi romanzi meno famosi. “Ecco la storia” aveva dei bei momenti ma, come tutti i libri aneddotici, mostrava che il suo autore stava raschiando il fondo del barile pur di dare alla luce un romanzo, tra fulmini verbali e scialberie narrative. “Signori bambini” denotava una consapevolezza di forza scritturale così netta, che Pennac poteva tranquillamente fregarsene dell’originalità e cannibalizzare a suo modo una storia già raccontata da altri. “Il paradiso degli orchi”, tradotto da Yasmina Melaouah per Feltrinelli Editore, è stato uno straordinario successo di vendite in Francia e in Italia e apre il Ciclo di Malaussène, di professione capro espiatorio. Ufficialmente il protagonista, Benjamin Malaussène, viene assunto come addetto del Controllo Tecnico in un Grande Magazzino di Parigi (le maiuscole sono di Pennac, che usa questo espediente per antropomorfizzare quasi tutto. Un personaggio minore, ad esempio, si chiamerà Labbra Umide a causa della salivazione della sua bocca). Ma, in un centro commerciale sono così tanti i prodotti venduti e i relativi guasti che, il direttore Sainclair, ha preferito optare per una strada più redditizia; così, ogni qualvolta un cliente si presenta alla direzione commerciale per un reclamo, su Benjamin Malaussène vengono scaricate tutte le responsabilità del guasto del prodotto, paventandogli con cattiveria un meritato licenziamento. Il cliente allora si intenerisce e ritira la sua protesta. Tutto prosegue con la solita alacrità fino a quando, il Grande Magazzino, viene colpito dall’esplosione di una bomba che lascia sul terreno anche il morto. Esplosioni e vittime proseguono, così la vicenda inizierà ad assumere il tono del giallo e, nei mesi successivi, toccherà proprio a Malaussène, principale indiziato per via della sua professione (“puzzo di capro” dirà lui stesso con tristezza), cercare di sbrogliare la matassa dei sospetti che si concentrano sulla sua persona. La struttura de “Il paradiso degli orchi”, come si evince dal breve riassunto, è soltanto in superficie un thriller. Come nella gloriosa tradizione novecentesca del giallo atipico, la risoluzione del “caso” è soltanto una mera cornice narrativa per il dipanarsi invece dello stile dell’autore. Pennac, contrazione del vero cognome dello scrittore che è Pennacchioni (accorciato per togliere ogni imbarazzo al padre, militare di rango elevato, dopo aver pubblicato un feroce scritto contro l’esercito), ha un’inventiva che alcune volte raggiunge vette straordinarie. Ci sono certi passaggi di una piacevolezza e di una dolcezza assolute, come quando leggiamo: «Jérémy e il Piccolo lanciano strilli di gabbiani in un oceano di carta da regalo». Metafore, inserti, commenti, riflessioni, insomma, tutti gli orpelli di stile che screziano di scintillanti striature il libro, Daniel Pennac li adopera con maestria. Se “Il paradiso degli orchi” si limitasse a questo sarebbe perfetto. La parte più debole è purtroppo proprio il racconto. Non c’è giallo perché il colpevole è prevedibilmente individuabile nella sua imprevedibilità. Non c’è tensione, perché la scrittura surreale dell’autore, nel delineare personaggi e situazioni, è inadatta a crearla. Non c’è originalità, perché troppo facilmente lo scrittore si rifugia nella vendetta di un personaggio che mischia nazismo e satanismo. E come in un giallo di serie B o in uno che cerchi le grandi vendite (un altro esempio che mi viene subito in mente è “Il nome della rosa” di Umberto Eco), a un certo punto Pennac tira fuori dal cilindro anche la figura del leggendario Aleister Crowley, giusto per dare quel tocco di diabolicità che tanto piace al pubblico. È come se il libro fosse percosso da due ondivaghe maree che rappresentano le due anime dello scrittore: quella autoriale, la più sincera, che lascia ad esempio affiorare anche l’amore per l’Italia e per Gadda, e quella editoriale, più fruttuosa economicamente, che limita gli sperimentalismi alla lingua e allo stile, ripiegando in un paludato giallo la struttura narrativa.
Siamo dalle parti del compromesso tra scrittore e pubblico: l’eccentricità di un nuovo stile veicolata tramite il più commerciale dei generi. Tenuto conto che la quarta di copertina dell’Universale Economica Feltrinelli è firmata da Stefano Benni, non è del tutto campato in aria il famoso parallelismo che unisce e contemporaneamente divide i fan dei due scrittori. Innanzitutto il livello di popolarità è pressoché uguale, virato verso le vette più alte per quanto attiene l’editoria: due scrittori idolatrati, venerati, impegnati socialmente, che ad ogni loro uscita smuovono una corrente ininterrotta di coscienze. Entrambi hanno sperimentato la relativa degenerazione di tanto successo. Se diversi circoli e iniziative letterarie sono infatti sorte nel loro solco (“Il paradiso degli orchi” ha dato lo spunto per l’avvio di un’omonima rivista letteraria, recentemente passata nel web), anche Pennac, come prima di lui Benni, ha visto la nascita di una nuova generazione di fan estremi, che legge soltanto i suoi libri e avversa gli altri scrittori, fra i quali il nostro Stefano Benni. Tornando al libro vero e proprio e continuando a vivisezionare alcune ingenuità insospettabili in un maturo quarantenne professore di liceo parigino (a quell’età scrisse il romanzo, dopo aver pubblicato alcuni libri per bambini), si può notare come risulti disarticolato lo scioglimento della vicenda. La confessione dell’assassino avviene senza tensione e la teoria, didascalicamente spiegata dal killer, del capro espiatorio del Grande Magazzino che assume su di sé i peccati del Commercio è troppo moralistica, pedante e pedagogica. Ripeto, “Il paradiso degli orchi”, coscientemente o no, (concedo a Pennac il beneficio del dubbio perché la sua scrittura è così fulgida da fargli meritare questo privilegio), riunisce in sé tutti gli ingredienti del successo: novità di stile, genere consolidato, personaggi simpatici, buoni sentimenti, moralismo, ambientazione idilliaca. Il romanzo è infatti ambientato in un’ormai famoso quartiere periferico di Parigi, la multietnica Belleville, che Pennac in questo romanzo sceglie di raccontare da una visione ottimistica, facendo interagire il suo antieroe Malaussène con pacifici arabi e stoici serbi. In un romanzo così segnatamente corale, il plauso maggiore va naturalmente alla disneyana (citazione benniana) famiglia di Benjamin Malaussène. Dalla madre in perenne fuga da sé stessa e dai figli, alle sorelle Clara, Thérèse e Louna, al Piccolo con gli occhiali rosa e al dinamitardo Jérémy, fino al cane epilettico Julius, la galleria di personaggi che colora questo libro è tratteggiata con una delicatezza e una partecipazione lodevoli. In definitiva un bel romanzo, imperfetto ma piacevole apripista di una saga meritevole di lettura. Pennac nel suo libro non concede Paradiso ai sei orchi della setta satanica. Tale lindezza etica è forse l’elemento commercialmente più appetibile da parte di un pubblico che da decenni ha perso la bussola dei valori. La massa ha bisogno ciclicamente di qualche bella storia che lavi la lordura nella quale sguazza giornalmente. Un bagno rinfrescante periodico che toglie soltanto le croste più superficiali. Un po’ poco a ben vedere, ma si sa, la massa procede a passo di gambero nel cammino della storia. Non è che non capisca gli Altri, è che proprio non li accetto.