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Sua Eccellenza non avrebbe mai il coraggio di affermare che il codice penale di uno stato laico dovrebbe recepire il magistero morale della Chiesa, però prova a rifilarcelo come non plus ultra: “Passa di qui la differenza tra reato e peccato. Il primo è un male «fuori», legato alla configurazione e prescrizione giuridica di esso a opera dello Stato e alla possibilità di questo di rilevarlo e denunciarlo. Il secondo è il male morale, la contraddizione di un valore umano, legato alla bontà e all’onestà della persona, che quella contraddizione inficia e svilisce. Con la differenza che il reato spinge alla rimozione, il peccato muove alla conversione. È solo a condizione di riconoscere il male compiuto e di attribuirselo come male, che scatta il pentimento e il proposito di superarlo. È ciò che fa la coscienza del peccato. Questa si fa giudicare dal bene conculcato e, da ultimo, dal Sommo Bene, ne assume le responsabilità e attiva un cammino di riconciliazione e di superamento. Diversamente il male si ripete, indifferentemente: finendo con l’aggiogare, dentro, le coscienze e, fuori, la società e le istituzioni. E invece assistiamo oggi a una rimozione culturale del peccato. Il peccato non è una categoria primariamente religiosa ma etica. Non esiste un’etica senza peccato, per la quale il bene e il male si equivalgono. Il peccato è il male morale, la negazione di fatto di un bene della persona; che nessuna dissimulazione può cancellare, ma solo la volontà di pentimento, di conversione e riconciliazione che la sua coscienza e confessione attivano. È per questo che la perdita di senso del peccato non rappresenta un fatto evolutivo, ma involutivo delle persone e della società” (Avvenire, 6.2.2011).
Pensate alle seghe: sono peccato, ma non reato. E gli uomini continuano a spararsele. Rimuovendo, invece di convertirsi, e perché? Perché la legge non le sanziona. E la società involve.Certo, non possiamo mettere in galera chi si spara le seghe, ma guardate in quali condizioni sono le istituzioni.
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