Magazine Maternità
Che il modo migliore di comunicare fosse la forma scritta. Che quella fosse la forma che più riuscissi a padroneggiare e con cui maggiormente riuscivo a esprimere me setssa.
Pensavo che quando hai davanti a te tutto il tempo per pensare, scegliere, ponderare le parole, costruire periodi, elaborare discorsi, nessuno che ti incalza, che aspetta una risposta ora e subito, che ti interrompe, che ti fraintende, solo allora riesci davvero a raccontarti come vorresti.
Che ti sottrai alla fretta, ai vuoti di memoria, ai lapsus, ai colpi di tosse, ai rumori di fondo, alla disattenzione altrui, ai lasciamo perdere, agli scusa non ho capito puoi ripetere, ai silenzi imbarazzanti, alla necessità di riempirli, ad abbassare gli occhi, al brufolo gigante che mi è spuntato sul mento, cavolo ho ricominciato a strapparmi le pellicine dalle dita, chè non sono io quella, è solo il mio modo di apparire.
Pensavo che fosse come a scuola, interrogazione o compito in classe? Io preferivo lo scritto: tieni a bada l'ansia da prestazione, valuti il tempo che hai a disposizione, scrivi scrivi, poi torni indietro e correggi, diecimila asterischi, richiami, e freghi freghi freghi, poi copi in bella. Ci ripensi e cambi attacco, aggiungi sul finale, e non stai lì a macerarti dopo a dire: ecco, lo sapevo, potevo dirlo meglio, potevo evitare di parlare di quello chè non ero sicura, mi sono bloccata, non mi veniva la parola, ho detto una cosa per un'altra, ma lo sapevo, cazzo se lo sapevo!
Pensavo anche che prescindere dalla nostra fisicità ci rendesse più liberi di essere chi ci pare, chi davvero ci sentiamo, presentare di noi l'immagine reale di come ci sentiamo, come ci vediamo, senza doverci adattare a come ci vedono da fuori gli altri, senza dover fare i conti col suono della nostra voce, col movimento delle nostre mani goffe che gesticolano, con quel filtro che sta tra noi e chi ci vede per la prima volta, e ci ha conosciuto invece per ciò che di noi abbiamo raccontato, scrivendo, trasfigurando il mondo in cui viviamo attraverso i nostri occhi e i tastini del computer.
Pensavo tutte queste cose e un poco titubavo a infrangere la barriera tra i due piani, rompere l'incanto. Chè la vita è più bella quando la racconti, si colora di parole e accenti che le dai tu, e assomiglia ad una storia, ad una fiaba, o alla trama di un film, o di una novella.
Pensavo che la comunicazione fosse più facile e più efficace quando te la puoi gestire pazientemente, seduta davanti allo schermo del tuo computer, e puoi usare tutte le parole che vuoi, anche quelle che quando parli non usi mai, e puoi eliminare e correggere, aggiungere e interrompere e poi riprendere dopo una pausa pipì.
Ma dimenticavo le inflessioni della voce. Dimenticavo le pause, le cadenze, gli accenti, il volume. Dimenticavo l'importanza dell'andamento altalenante di una frase, del tono a salire o a scendere, del detto a mezza voce, del significato diverso delle parole che escono fuori da un sorriso.
Dimenticavo le espressioni facciali, gli incroci di sguardi, il linguaggio del corpo, l'immediatezza del pensiero, il senso del contesto, le abitudini verbali, gli ammicchi involontari, le reazioni facciali, studiarsi in un'occhiata, il percorso delle onde sonore dalla bocca all'orecchio, il vibrare delle corde vocali, l'aria nei polmoni, parlare mentre cammini, volgere la testa per vedere in faccia il tuo interlocutore, una frase completata dal gesto di una mano, una risata che interrompe un discorso, una bambina che pretende che tu canti per lei.
Quindi mi sono sbagliata. Non esiste comunicazione migliore di un'altra. Non esiste una forma più efficace. E' nell'insieme di ciò che offriamo di noi agli altri, nella nostra immediatezza e nel nostro costruirci come immagine mentale di noi stessi, che consiste la nostra identità.
Non pensavo che avrei scritto ancora di quell'incontro, ma invece ci penso, perchè è stato strano, ma anche normale al tempo stesso. E dopo aver letto questo, non ho potuto non rispondere.
Strano come ti figuri le persone in un qualche modo anche se non le hai mai viste in vita tua, e quasi sempre sbagli.
Pensavo che quando hai davanti a te tutto il tempo per pensare, scegliere, ponderare le parole, costruire periodi, elaborare discorsi, nessuno che ti incalza, che aspetta una risposta ora e subito, che ti interrompe, che ti fraintende, solo allora riesci davvero a raccontarti come vorresti.
Che ti sottrai alla fretta, ai vuoti di memoria, ai lapsus, ai colpi di tosse, ai rumori di fondo, alla disattenzione altrui, ai lasciamo perdere, agli scusa non ho capito puoi ripetere, ai silenzi imbarazzanti, alla necessità di riempirli, ad abbassare gli occhi, al brufolo gigante che mi è spuntato sul mento, cavolo ho ricominciato a strapparmi le pellicine dalle dita, chè non sono io quella, è solo il mio modo di apparire.
Pensavo che fosse come a scuola, interrogazione o compito in classe? Io preferivo lo scritto: tieni a bada l'ansia da prestazione, valuti il tempo che hai a disposizione, scrivi scrivi, poi torni indietro e correggi, diecimila asterischi, richiami, e freghi freghi freghi, poi copi in bella. Ci ripensi e cambi attacco, aggiungi sul finale, e non stai lì a macerarti dopo a dire: ecco, lo sapevo, potevo dirlo meglio, potevo evitare di parlare di quello chè non ero sicura, mi sono bloccata, non mi veniva la parola, ho detto una cosa per un'altra, ma lo sapevo, cazzo se lo sapevo!
Pensavo anche che prescindere dalla nostra fisicità ci rendesse più liberi di essere chi ci pare, chi davvero ci sentiamo, presentare di noi l'immagine reale di come ci sentiamo, come ci vediamo, senza doverci adattare a come ci vedono da fuori gli altri, senza dover fare i conti col suono della nostra voce, col movimento delle nostre mani goffe che gesticolano, con quel filtro che sta tra noi e chi ci vede per la prima volta, e ci ha conosciuto invece per ciò che di noi abbiamo raccontato, scrivendo, trasfigurando il mondo in cui viviamo attraverso i nostri occhi e i tastini del computer.
Pensavo tutte queste cose e un poco titubavo a infrangere la barriera tra i due piani, rompere l'incanto. Chè la vita è più bella quando la racconti, si colora di parole e accenti che le dai tu, e assomiglia ad una storia, ad una fiaba, o alla trama di un film, o di una novella.
Pensavo che la comunicazione fosse più facile e più efficace quando te la puoi gestire pazientemente, seduta davanti allo schermo del tuo computer, e puoi usare tutte le parole che vuoi, anche quelle che quando parli non usi mai, e puoi eliminare e correggere, aggiungere e interrompere e poi riprendere dopo una pausa pipì.
Ma dimenticavo le inflessioni della voce. Dimenticavo le pause, le cadenze, gli accenti, il volume. Dimenticavo l'importanza dell'andamento altalenante di una frase, del tono a salire o a scendere, del detto a mezza voce, del significato diverso delle parole che escono fuori da un sorriso.
Dimenticavo le espressioni facciali, gli incroci di sguardi, il linguaggio del corpo, l'immediatezza del pensiero, il senso del contesto, le abitudini verbali, gli ammicchi involontari, le reazioni facciali, studiarsi in un'occhiata, il percorso delle onde sonore dalla bocca all'orecchio, il vibrare delle corde vocali, l'aria nei polmoni, parlare mentre cammini, volgere la testa per vedere in faccia il tuo interlocutore, una frase completata dal gesto di una mano, una risata che interrompe un discorso, una bambina che pretende che tu canti per lei.
Quindi mi sono sbagliata. Non esiste comunicazione migliore di un'altra. Non esiste una forma più efficace. E' nell'insieme di ciò che offriamo di noi agli altri, nella nostra immediatezza e nel nostro costruirci come immagine mentale di noi stessi, che consiste la nostra identità.
Non pensavo che avrei scritto ancora di quell'incontro, ma invece ci penso, perchè è stato strano, ma anche normale al tempo stesso. E dopo aver letto questo, non ho potuto non rispondere.
Strano come ti figuri le persone in un qualche modo anche se non le hai mai viste in vita tua, e quasi sempre sbagli.
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