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Pensiero grottesco

Creato il 11 novembre 2012 da Gadilu

Fuori piove, dentro sbocciano pensieri grotteschi. Scrivevo ieri degli ambiziosi progetti tesi a raddrizzare la schiena a quei fannulloni d’insegnanti (quelli che lavorano quattro ore alla settimana, come c’informa il sempre – tranne stavolta – informatissimo Malvino). Ma visto che ultimamente della scuola si stanno occupando un po’ tutti (una volta si diceva “cani e porci”), vale forse la pena tentare proficue sintesi. Dobbiamo allora riempire sensatamente le quattro o sei ore in più alla settimana che ci vogliono appioppare? Beh, se ne potrebbe approfittare per eviscerare, ermeneutizzare e quantunquemente cantare l’inno nazionale (visto che a qualcuno è venuto in mente d’istituirne l’obbligo di approfondimento). Sei ore la settimana di Fratelli d’Italia, perché no? Tanto ormai… Eh, perché no?

Marco Rovelli ha scritto per l’Unità un testo che riproduco al fine di restaurare un po’ di buon senso.

Perdonatemi, io sono un miscredente. Non credo che gli inni, le bandiere, e nemmeno il senso di appartenenza a una “nazione” (concetto quantomai desueto, che storicamente ha fatto il suo tempo) possano essere il collante necessario a una società di liberi ed eguali. Non credo che nella retorica della nazione si fondi quella civiltà dei diritti uguali per tutti di cui abbiamo bisogno. Non è di riti e miti che abbiamo bisogno, ma di pratiche condivise che ci facciano apprendere nel vivo dell’esperienza che cosa significa “bene comune”. E non credo che insegnando l’Inno di Mameli a scuola si risolvano i problemi della cittadinanza, e tantomeno della scuola. Emblematico che, nel momento in cui la scuola non cessa di essere manomessa, con tagli su tagli e attacchi ai diritti acquisiti degli insegnanti, specie i precari, si pensi a questa innovazione “epocale” (sí, sono ironico). Non so se il maestro elementare (oltre che giornalista: il suo blog sta sul fattoquotidiano.it) Alex Corlazzoli farà cantare ai suoi bambini l’inno. Ma so che la possibile costruzione di una comunità e di una cittadinanza responsabile comincia dalle pratiche educative raccontate nel suo recente libro “La scuola che resiste” (ed. Chiarelettere). Sono le storie, raccontate con grande passione, di un maestro precario che è ben consapevole di quanto la scuola sia il bacino di formazione di cittadini, e ancor più di persone. A fronte di una scuola sempre più standardizzata e aziendalizzata, sempre più catena di montaggio, Corlazzoli sa che si tratta di vedere i volti delle persone, partire dalle esperienze personali, provocare un coinvolgimento esistenziale, confrontarsi continuamente col mondo, mediante pratiche didattiche che qualcuno direbbe alternative, ma che sono le uniche oggi a poter salvare la scuola, e la società.

(pubblicato su l’Unità, 10/11/2012)

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