Ancora qualcosa di rosso
Quando sono arrivata a un certo punto dell’Hotel Silence (la partenza del protagonista per Altrove), ho deciso che non avrei continuato a leggere. Perché questo tizio, sposato, separato, con figlia e un amico, è uomo sull’orlo della depressione (sull’orlo? No, forse proprio cadutoci dentro alla grande) che per più di un terzo delle pagine ci diletta con i suoi pensieri depressi di uomo triste, depresso (l’ho già detto?), deluso dalla vita, anzi, sconfitto dalla vita, disinteressato ai giorni che verranno e preoccupato soltanto (gentilissimo) di non dare troppo disturbo a chi ha intorno quando toglierà il disturbo (da questa vita).
Poi, appunto, arriva una partenza per chissà dove (ci sono indizi, via via, ma mai niente di preciso) e un fatterello apparentemente minuscolo (la sistemazione dell’antina di un armadietto, o qualcosa del genere) che, tuttavia, è stato sufficiente a far immaginare come sarebbe andata a finire la storia (per lo meno, arrivata a quella pagina a me è venuto subito da pensare: ecco, adesso aggiusta l’armadietto e poi si aggiusta tutto, metafora un po’ banale della vita).
Ora, se qualcuno non avesse letto il libro non sarebbe gentile dire se l’immaginazione (mia) abbia fatto bene il suo lavoro o se abbia preso una grandiosa cantonata, però si può almeno dire che, da lì, il romanzo (meglio, racconto lungo) cambia: lo sguardo un po’ ombelicale del depresso protagonista è costretto ad allargarsi; altri personaggi entrano nella sua vita e nella storia, le cose si complicano (dal punto di vista narrativo) e la vicenda si fa più agevole da seguire.
Lo so perché, riprendendo in mano il libro in e-book, mi sono accorta che, di pensiero triste in pensiero afflitto, quando ho interrotto la lettura alla partenza del protagonista ero comunque arrivata al 40% delle pagine, e ho quindi pensato che potevo fare uno sforzo e finire.
Così, ho notato che la storia, in sé molto scarna (qualcuno è depresso, parte, e incontra qualcun altro) aveva preso tutt’altra direzione: una forse un po’ banale e prevedibile, e un’altra più interessante. Si parla di guerra, devastazione, morte, rovine, segni di proiettili nei muri, e segni nella mente e nel cuore delle persone. Il protagonista (e noi con lui) ragiona perciò sulla vita, sugli orrori della guerra, sulle speranze che, nonostante tutto, animano gli abitanti della cittadina sconosciuta di tornare ad una esistenza normale.
Viene descritto un paesaggio che potrebbe essere in qualsiasi paese devastato da una guerra intestina ma che, per ambiente, clima, accenni, sembra molto vicino a noi; vengono raccontate, a pezzi e bocconi, riprese ravvicinate e inquadrature lontane, le storie di chi questa guerra l’ha vissuta e pagata sulla propria pelle (e non ne vuole parlare esplicitamente: “…noi non discutiamo su chi ha fatto cosa, …a nessuna si chiede quel che ha dovuto subire… L’unico modo per andare avanti è far finta di avere una vita normale. Fare come se tutto fosse a posto”) e la storia di chi si trova a fare i conti con una realtà molto diversa dalla propria. Una realtà così terribile (benché, appunto, solo accennata, sfiorata, più suggerita che espressa) che ogni nostra contrarietà, ogni nostro inciampo vengono rapidamente ridimensionati e ricondotti alle giuste (spesso minime) proporzioni.
Nonostante l’argomento, da un certo punto in poi le pagine procedono veloci, con levità, direi, e anche gli aspetti o gli episodi che potrebbero essere più truci o aspri (penso, per esempio, al pestaggio) scorrono via senza difficoltà, lasciano il posto a un nuovo episodio, ci toccano ma ci lasciano subito liberi di pensare ad altro.
E tuttavia rimangono alcuni aspetti “un po’ così”: il racconto risulta, alla fine, slegato; i rimandi poetici e le numerose, piacevoli citazioni di altre opere devono fare i conti con realtà ben più stridenti; alcuni aspetti (o alcuni personaggi) sarebbero potuti essere meglio delineati, approfonditi; certe soluzioni, un certo sciogliersi degli eventi, risultano in qualche caso improvvisi, quasi necessari per chiudere in fretta certe pagine; i titoli dei capitoli, alcuni brevi, altri lunghissimi, sembrano messi lì perché tu trovi qualche profondo, intimo e significativo legame con ciò che li seguirà, eppure io credo di averne capito soltanto uno; la metafora dell’armadietto (così mi è venuto di chiamarla), come già detto, è un po’ logora; e anche il finale, boh, lascia un po’ perplessi (forse bisognava mandare Altrove anche qualcun altro).
Nel complesso, comunque, una sufficienza per l’agilità di lettura, per alcuni temi sfiorati, per l’idea di fondo, e per la bellissima copertina con l’impermeabile rosso, ma con la difficoltà a comprendere la critica ufficiale che lo definisce il libro più bello di Auður Ava Ólafsdóttir e un capolavoro.
