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pensioni

Creato il 05 maggio 2013 da Gaia
C’è un argomento sul quale abbozzo post da un po’, per poi cancellarli e parlare d’altro. Il motivo principale, accanto alla complessità dell’argomento, è la paura di far arrabbiare troppo chi mi legge o addirittura perdere lettori. In altre parole temo l’impopolarità – anche se una persona che dice solo quello che gli ascoltatori si aspettano di sentire non fa un gran servizio. A destra, dove non bazzico, ci sono cinici a volontà, ma le loro premesse non sono le mie. A sinistra, dove vorrei stare, non è invece ammesso prendersela con i deboli. Io, pur collocandomi a sinistra, non sopporto la retorica buonista in cui si avvolgono con sollecitudine praticamente tutte le categorie care alla sinistra: studenti, lavoratori, immigrati, e ora anche i pensionati. Penso che bisogni ripensare parecchi automatismi. Riguardo agli studenti, stanno troppo tempo a studiare senza lavorare mentre qualcun altro lavora per loro e, quel che è più grave, non glielo si può dire che si offendono (per lo meno quelli con cui parlo io). Riguardo agli immigrati, indipendentemente da dove vengano: dico sempre che in Italia siamo già in troppi. La popolazione non può crescere all’infinito, ed essere poveri non autorizza a fare quanti figli si vuole tanto quando essere ricchi non autorizza a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Riguardo ai lavoratori: bisogna lavorare tutti di meno. Basta con la retorica del creare lavoro: bisogna distribuire il lavoro che serve, e passare il resto del tempo a vivere. Riguardo ai pensionati, oggi mi occuperò proprio di loro e ci andrò pesante.
Prima, due premesse fondamentali. Una: bisogna trovare il modo di abolire la distinzione che la ipermonetizzazione delle nostre vite (e iperspecializzazione delle professioni) crea tra lavoro salariato e non. Il lavoro non salariato può riguardare praticamente ogni sfera dell’esistenza e soddisfare i nostri bisogni o creare benessere, ma non conta nel Pil, non permette, se non con accordi poco moderni e pratici, di fare uno scambio con il lavoro altrui, non versa contributi e non salva dall’accusa di essere fannulloni. Io ho notato, nella mia breve ma non brevissima esperienza lavorativa, che meno utile, personale e difficile era il lavoro che svolgevo, più venivo pagata. Per le mie attività che considero migliori, cioè il blog e la scrittura, non guadagno niente. Ma al di là di questo: alle radici del lavoro c’è la necessità basilare della sopravvivenza: il cibo e i vestiti soprattutto. Coltivare qualche pianta e cucirmi i vestiti sono attività che svolgo per me stessa e mi è capitato di sentirmi dire: devi avere molto tempo libero. Come se fossero solo hobby. E invece: se non è lavoro quello, cosa lo è?
Dico queste cose per mostrare di capire che i pensionati non sono (sempre) parassiti della società: se badano ai nipoti, curano un orto, sferruzzano, sono socialmente ed economicamente utili. Il punto è che la pensione consente a loro di scegliere quanto fare e cosa fare: è positivo che non si sia costretti a lavorare ad ogni costo, ma negativo che si sia scoraggiati dal farlo dalle istituzioni vigenti, anche se si è in grado. Si può andare in pensione e poi passare trent’anni a viaggiare e divertirsi mentre gli altri provvedono alle nostre necessità. Non con una pensione minima, che infatti è inadeguata. Ma con una pensione di mille euro al mese e una buona salute garantita dalla collettività ci si può permettere di non fare nulla di utile per gli altri, e nemmeno materialmente necessario per sé, per tanto tempo quanto si è passato a lavorare (tipo dai sessant’anni ai novanta). E molte pensioni vanno ben al di sopra dei mille euro al mese.
Invece, io penso che tutti coloro in grado di farlo dovrebbero lavorare. Vi dico chi, grosso modo, a mio giudizio non è in grado di lavorare: i bambini piccoli, i disabili molto gravi, gli anziani molto anziani. Chi vorrebbe lavorare ma non trova lavoro appartiene a un’altra categoria da trattare a parte; chi è in pausa temporanea non appartiene alla stessa categoria dei pensionati, che sono in pausa irreversibile.
La sinistra propone di abbassare l’età pensionabile, di nuovo. Molti dicono: l’aspettativa di vita si è alzata, le finanze pubbliche sono in crisi, non si può andare in pensione troppo presto. Io propongo: aboliamo la pensione.
La mia proposta è figlia di un egualitarismo tanto esasperato da risultare incomprensibile alla sinistra superficialmente egualitarista. Io sono contro la cassa integrazione, per esempio: una persona che non lavora è identica a un’altra che non lavora, indipendentemente da quello che ha fatto fino al giorno prima (per cui esistono in ogni caso i risparmi). Sto prendendo in considerazione l’essere contraria all’eredità: i genitori fanno già abbastanza quando sono in vita per trasferire le differenze di classe ai figli, permetterlo anche dopo morti è troppo. La società dovrebbe garantire tutti, non solo i privilegiati, e dare a tutti, nei limiti del biologicamente possibile, le stesse possibilità. Sono contraria anche alle diseguaglianze tra pensionati: come ho detto, una persona che non lavora è una persona che non lavora, non importa il lavoro che aveva prima. Sono invece favorevole a un reddito minimo il più universale possibile: la sopravvivenza minima e dignitosa garantita a tutti, oltre la quale ognuno può cercare di guadagnarsi qualcosa in più con il proprio impegno. Pensionati compresi.
La verità infatti è che l’attuale sistema, tenendo i giovani a scuola fino a età inverosimili (anche oltre il 30, nel caso di molti ragazzi che conosco), e permettendo pensioni a sessant’anni o poco dopo, lascia tutto il peso del lavoro sulle spalle di una fascia minoritaria della popolazione, già enormemente gravata: grosso modo quella tra i trenta e i sessant’anni. L’età in cui spesso si hanno anche figli da crescere, genitori anziani da accudire, e voglia ed energie per fare cose per cui è peccato dover aspettare la pensione (che può non arrivare, qualcuno muore prima): conoscere il mondo, leggere, viaggiare, essere cittadini attivi.
Questo è assurdo. Metà della popolazione, grosso modo (ventinove milioni di cittadini sono compresi tra i 25 e i 60 anni), lavora per l’altra metà. Guardate l’age depedency ratio per l’Italia: ci sono 53 persone sotto i 15 anni o sopra i 64 per ogni 100 invece comprese in quella fascia. Però sappiamo che poche persone iniziano a lavorare a quindici anni*, e non tutti coloro che hanno tre i 15 e i 64 anni lavorano o svolgono attività di cui possano beneficiare anche gli altri (definizione estesa di lavoro). Molte donne non lavorano: certo, essere casalinga è un lavoro vero e proprio, ma ci sono anche le casalinghe di lusso, quelle che vivono con i soldi del marito e devono solo dare ordini alla servitù. Non mi credete? Quante ne ho viste…
Quindi non credo di esagerare se ipotizzo che metà della popolazione, grossomodo, lavori per l’altra metà, quindi lavora più di quanto non dovrebbe. Anzi, vi dirò di più: in Italia risultano poco meno di 23 milioni di lavoratori (il 38% della popolazione totale!!) Non voglio dilungarmi troppo, ma dubito che, aggiungendo pure il nero e i lavori svolti in maniera gratuita per almeno qualche ora al giorno, arriveremmo alla metà della popolazione. E questa metà che lavora anche per l’altra è talmente terrorizzata dalla prospettiva di non poter lavorare, talmente assorbita da quello che fa, che non si rende nemmeno conto che la vita intanto passa così e non torna più. E che potrebbe farsi dare una mano.
Moltissimi sessantenni e settantenni sono perfettamente in grado di lavorare, fisicamente e/o intellettualmente.  E per lavorare, badate bene, io intendo il lavoro part-time: tutto il resto è schiavitù propria o al limite altrui (nel caso in cui si svolga un lavoro piacevole e si paghi qualcuno per pulire la propria casa e gli spazi in cui si vive, o per accudire i propri figli).
Quando sento di gente che va in pensione e ‘finalmente’ si gode la vita, e racconta in giro le proprie imprese, mi viene rabbia. Per due motivi: uno, che poteva anche farlo prima, due, e più importante, che invece c’è chi è costretto a passare otto-dieci ore al giorno chiuso da qualche parte mentre questi sessantenni pieni di energie se la spassano – e lavora fa anche per loro. Non è giusto!
Conosco anziani che hanno allevato animali e fatto i contadini fino a ottant’anni – non perché dovevano ma perché volevano e potevano. So che c’è gente che va in pensione e si deprime, altra che rifà la casa con le proprie mani pur di far qualcosa, in qualche modo, perché il vuoto fa paura. Tanti addirittura si inventano qualche altra attività, legalmente o a nero, per sfuggire all’inedia o al senso di vuoto. E allora perché non lavorare ancora, tutti, alla luce del sole? Ripeto: parlo di poche ore al giorno, so che dopo una certa età ci si stanca prima. Ma si può fare. Chi non ce la fa a continuare con il proprio mestiere può dedicarsi ad attività più leggere. Chi non è davvero in grado di lavorare, può allora avere diritto a una pensione superiore al reddito minimo – ma con l’assistenza sanitaria e personale garantita dalla collettività, il reddito minimo e se necessario un alloggio popolare, probabilmente nemmeno servirebbe.
Pensate al concetto di ‘invecchiamento attivo’, ora così di moda. Cosa si intende? Che gli anziani devono vivere in salute e partecipando, anche economicamente, alla società. Ma allora, di cosa stiamo parlando? Forse di continuare a lavorare? Non lo so: non ho seguito il dibattito. Mi sembra la logica conseguenza di un obiettivo simile, ma forse esplicitarlo è troppo impopolare.
Un mese e mezzo fa, il 22 marzo per la precisione, leggevo sul Manifesto l’intervista all’economista Mauro Gallegati che parlava, senza purtroppo specificare, di riformare l’Inps e abolire le pensioni. Non specifica come ma credo ci sia un certo consenso sulla necessità di estendere il welfare e al tempo stesso di semplificarlo, eliminando burocrazia e la giungla di trattamenti diversi e requisiti complessi, come la cassa integrazione o le infinite esenzioni che escludono sempre qualcuno. Tra l’altro questo comporterebbe un risparmio per lo stato, da restituire ai cittadini nella forma di minori tasse e tutele ora inesistenti o, nel caso di redditi elevati che dovranno essere tassati di più, usare per finanziare uno stato sociale come quello che propongo.
Fatemi eliminare l’equivoco dei lavori usuranti, per i quali si chiede un riposo anticipato. Questa è una disgustosa ipocrisia: un lavoro usurante lo è ben prima dei venti o trent’anni di anzianità. Un lavoro usurante inizia ad usurare da subito. Distribuiamoci questi lavori tra noi: quando uno non ce la fa più, mollerà quel lavoro e passerà a sedersi in un ufficio o a badare i bambini o a correggere bozze.
Probabilmente vi sembro un mostro: tagliare le pensioni d’oro, certo, alzare l’età pensionabile, parliamone, ma impedire alla gente di andare in pensione: siamo pazzi?
Vi chiedo però di immaginare il mondo che descrivo in maniera completa. I giovani dai quindici-sedici anni iniziano a prendere qualche lavoretto: un pomeriggio alla settimana in gelateria, qualche serata da baristi, di più se vogliono. Gli adulti lavorano ma poche ore, magari prendendosi qualche periodo di riposo, autoproducendo molto e quindi accontentandosi di part-time e salari più bassi; gli anziani scelgono un’occupazione poco faticosa, aiutano la famiglia, autoproducono per sé e percepiscono in ogni caso un reddito minimo che garantisce di non diventare poveri. Lo stesso reddito a cui hanno accesso tutti: una dignitosa sopravvivenza, e per dignitosa non intendo casa grande in centro e ferie ogni anno – quello è il di più.
Naturalmente, tutto questo viene finanziato principalmente con la lotta all’evasione e con la tassazione dei ricchi, e dato che il nostro è uno dei paesi più diseguali d’Occidente ci sono bei margini.
Quindi, dato che tutti lavorano, i redditi potranno essere più bassi, con un duplice vantaggio: chi adesso lavora tanto lavorerà meno, e lavoratori e pensionati si accontenteranno di un reddito più basso perché non dovranno trasferirne una parte sostanziosa a figli e nipoti, che si arrangeranno, almeno in parte, da soli. Questo dovrebbe anche attenuare le differenze di classe: sono stanca di figli di ricchi che non fanno niente e figli di poveri che si sudano ogni euro.
Aggiungo che, anche se i pensionati spesso sono nonni e aiutano chi lavora a prendersi cura dei nipotini, questo sistema non è veramente egualitario: c’è chi non ha nipoti, per esempio, o chi li ha lontani. Non dico che non vada bene aiutarsi all’interno di una famiglia, ma non basta per autorizzare i sessantenni, in toto, a non lavorare più. Se lavorano anche loro lavoreranno meno i genitori dei bambini, quindi la situazione si pareggerebbe.
Finendo la descrizione della mia utopia, specifico che gli anziani veramente incapaci saranno assistiti a carico della collettività – io in realtà penso che bisogni smetterla di allontanare la morte nello spazio e nel tempo in maniera così paranoica e ossessiva, attraverso case di cura e ospedali e quintali di medicine ogni giorno, e che bisogni imparare di nuovo a morire e lasciar morire, a dire no alle cure che rovinano la vita e confinano in un letto di ospedale, soprattutto a età avanzate quando ormai la vita è vissuta ed è ora di lasciare posto alla vita nuova. Ma di questo, spero, parlerò un’altra volta: per oggi mi sono già spinta abbastanza in là.

* Secondo l’Istat, nel 2009, solo il 35,7% degli studenti tra i 25 e i 29 anni svolgeva un lavoro retribuito (quasi altrettanti programmi di studio-lavoro), mentre per la fascia 30-40 il 60,9% svolgeva un lavoro retribuito e il 27,6% un programma di studio-lavoro. Nel complesso, solo il 15% dei quasi 14 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni aveva un lavoro! Il 18% svolgeva un tirocinio formativo. E tutti gli altri?


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