Il governo vuole dare spazio ai giovani al posto dei lavoratori anziani, ma per le stime Uil chi si ritira 4 anni in anticipo perderà più di una mensilità l’anno.
E dal 2030 il taglio dell’assegno sarà più pesante.
Andare in pensione con un anticipo di 4 anni, perdendo però una mensilità abbondante ogni anno. E’ quel che accadrebbe applicando le penalità previste dal disegno di legge del duo Baretta-Damiano, che il governo sta seriamente prendendo in considerazione per favorire la «staffetta generazionale».Ossia consentire l’uscita anticipata ai lavoratori più anziani e costosi per fare largo ai giovani. Gli effetti li ha calcolati il Centro studi della Uil - politiche fiscali e previdenziali, applicando la sforbiciata del 2% l’anno prevista dal testo depositato alla Camera, che lascia libertà di andare a riposo già a 62 anni, anziché a 66 come da normativa vigente, ma con almeno 35 anni di contributi versati.
La proposta prevede anche la possibilità di ritardare fino a 70 anni il pensionamento, in questo caso con un bonus sempre del 2% l’anno. Ma il governo non sembra intenzionato a mettere in pratica questa opzione, contraria alla politica del «largo ai giovani».
Taglio del 3% l’anno In verità anche il “malus”, per ammissione dello stesso sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, potrebbe subire un ritocco all’insù, al 3% l’anno, per attenuare il costo dell’operazione. E tra le opzioni c’è anche quella buttata lì dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di calcolare tutto con il contributivo il trattamento di chi va anticipatamente in quiescenza. Una possibilità che equivarrebbe a un taglio del 30%.
Lo stesso previsto dall’opzione donne della legge Fornero, che fino ad oggi ha riscosso scarso successo tra le lavoratrici.
«La Uil è sempre stata favorevole al principio della flessibilità», ci tiene a ricordare il segretario confederale Domenico Proietti. Che però aggiunge: «Non ci devono essere penalizzazioni aggiuntive a quella già implicita del calcolo con il contributivo».
Cerchiamo però di capire cosa accadrebbe a chi decidesse da qui a 15 anni di andare in pensione anticipatamente con i tagli ipotizzati dall’unica proposta già nero su bianco. Con uno stipendio di 30 mila euro lordi chi andrà in pensione nel 2020, percepirebbe un assegno mensile di 1.660 euro. Anticipando di 4 anni l’addio al lavoro l’incasso mensile scenderebbe a 1.527 euro, con una perdita di 133 euro. Nell’arco dell’anno una mensilità in meno. Se poi il taglio si inasprisse al 3% l’anno, l’assegno si ridurrebbe di ben 199 euro, scendendo a 1.328 euro.
Il nodo dei cinquantenni Mettiamo invece il caso di un lavoratore cinquantenne che in pensione ci andrà nel 2030, con la pensione calcolata integralmente con il meno vantaggioso sistema contributivo.
Il taglio in termini percentuali sarà sempre lo stesso, ma si rivelerà meno sostenibile perché applicato su un trattamento più basso.
Con il solito reddito di 30 mila euro l’assegno mensile a normativa vigente in questo caso scenderebbe a 1.328 euro, ai quali ne andrebbero detratti 106 con il taglio dell’8% previsto dalla «Baretta-Damiano» per chi anticipa di 4 anni l’addio al lavoro. L’assegno si ridurrebbe così a 1.222 euro, addirittura a 1.169 con il più probabile taglio del 3% annuo al quale sta pensando l’esecutivo.
Insomma, per far quadrare i conti si rischia di rendere poco appetibile l’opzione dell’uscita anticipata. E proprio ieri la Cgia di Mestre ha diffuso numeri che parlano di una spesa previdenziale italiana da record europeo, pari al 16,8% del Pil e quattro volte superiore a quella per la scuola. Cifre che in realtà ricomprendono anche la voce assistenza, anche se dal 2001 al 2011 la spesa per le pensioni vere e proprie è lievitata di quasi 50 miliardi. E questa volta i numeri sono della Ragioneria.