“Maurizio vive una vita tranquilla tra macchine di lusso, vacanze in barca e casolari in campagna. Accanto a lui la sua famiglia: un padre autoritario, una madre dolce e comprensiva, due sorelle che non mancano di fargli sapere che lo considerano un fallito, la nonna convinta di curare i suoi mali con uno spruzzo di detergente per superfici, la zia che parla solo per frasi fatte. La sua è un’esistenza privilegiata, fino al giorno in cui viene a sapere che la madre è affetta da un tumore maligno. “Stavo soffrendo ma mi hai interrotto” è il romanzo autobiografico di un dolore irripetibile e indicibile, raccontato con un’ironia che sfora l’umorismo. Dietro a ogni riga, ogni parola, sussurrata o gridata, c’è il dolore vero, un retrogusto acre e malinconico. E, dietro il sorriso che l’autore prova a offrire al lettore, si trova l’animo di un figlio, di ogni figlio.”
Così recita la quarta di copertina del romanzo Stavo soffrendo ma mi hai interrotto, edito da San Paolo editore. Maurizio Sbordoni è nato a Roma il 1969, sotto i bianchi cristalli di un giorno nevoso. Ha una casa nella Città Eterna ed in un’altra cinquina di posti. Come hobby ha quello di far incazzare la gente. Seguire la sua bacheca di Facebook per credere.
Il tuo romanzo è quanto di più realistico ci si possa aspettare, parlando di letteratura e narrativa. Raccontare il dolore dovuto alla perdita di tua madre deve essere stato complesso. Nel tuo caso, il successo forse deriva dalla tempestività con la quale, dopo quella telefonata, decidi di chiudere in bare di carta la tragica dipartita, anestetizzandoti il cuore (e la penna) con un elegante benché ostentatissimo stile leggero, a tratti cinico. Il tempismo perfetto con il quale decidi di iniziare la stesura del romanzo ti permette di mantenere una mente lucida perché lo-stai-scrivendo. Allo stesso tempo però senti l’amore di tua madre necessario quanto effimero e, nel momento della scrittura, lo è più che mai. Tu lo senti, e questo ti permette di dare alle tue pagine una straziante profondità emotiva. Sei riuscito a fuggire una volta ma, ora che il libro esiste fuori di te, quante lacrime ti costa rileggerlo?
Ostentatissimo un bip (leggasi: cazzo) Lo stile che in molti hanno definito leggero, ovviamente riferito a un argomento così straziante, è il mio, leggero perché così mi sentivo mentre scrivevo. Anche adesso, mentre rispondo alle tue domande di getto, penso che ancora si parla della morte di mamma e mi viene da ridere.
Per quanto riguarda la domanda, ho riletto il libro una sola volta da quando è stato pubblicato e ho notato che ci sono due lettori in me: il figlio e lo scrittore. Lo scrittore si diverte ancora a leggerlo, perché sono poche le cose altrui che leggo con uguale piacere, e sono stato bravo. Ma, da scrittore, è anche frustrante. Ho raccontato un dolore indicibile vissuto in prima persona, e non l’ho fatto giocando sulla pietas o sulle lacrime facili. Troppo facile scrivere un libro del genere e su un argomento che crea così tanta empatia.
Ora viene il difficile. Il figlio fancazzista invece ha provato a giocare sporco, inventandosi un trucchetto per soffrire meno per la morte della mamma. Mi è sempre piaciuto lavorare sul meno: meno impegno, meno fatica. Ho talento nel vivere, avrei potuto farcela. Ma una mamma che muore è una mamma che muore.
Lo puoi scrivere, dipingere, scolpire, o ritirarti in un eremo a piangere la metabolizzazione del lutto. Non cambia nulla.
Il pepe del romanzo sono senz’altro i personaggi. E anche questo è un compromesso intelligente quanto crudele. Prendere scorci di vite vere esposte alla fredda brezza della morte e immortalarle in aneddoti letterari, decisamente più profondi di quanto loro sappiano se stessi, mostrando la loro mortalissima natura, a quanto pare ti riesce benissimo. Che tu sappia, agli altri (a tua zia per esempio) quanto risulta difficile invece apprezzare questa tua capacità e, nel caso, conviverci?
I personaggi sono costruiti bene in quanto reali. In questo sono stato fortunato: per la costruzione di un buon romanzo i personaggi non devono essere reali. Anzi, alle volte è un limite. Le persone vere sono noiose, prevedibili, e ti si accollano per giorni dicendo che hanno la diarrea, quando invece defecano feci al limite del cubismo. La mia invece è una famiglia strana, ma vera, incredibilmente reale, per questo alla fine risulta credibile. Tre sono le persone che avrebbero potuto risentirsi del trattamento da me riservato : mio padre, mia zia e mia nonna. Con mio padre l’ho sfangata, lui legge solo Vela e Motore. Qualche volta, di sottecchi, alcune persone mi hanno detto di averlo visto con il mio libro aperto in mano. Ma non credo leggesse quel tipo di parole impresse in neretto su sfondo bianco che di solito si leggono da sinistra verso destra , se non sei giapponese. Per lui credo sia importante tenere tra le mani il libro scritto dal figlio. Ogni tanto lo prende, lo vuole sentire in mano. Per il contenuto, non ha bisogno di leggere nulla: è tutto dentro al suo cuore.
Zia ha preteso e ottenuto spiegazioni. La mia risposta ufficiale è stata: zietta cara, la narrativa non è la realtà, ma attinge dalla stessa per mettere in campo situazioni credibili. Lei ha finto di crederci, ed io l’ho apprezzato molto. Nonna invece non ha fatto in tempo a leggerlo, è morta prima che uscisse il libro.
Mi sono sbagliato: non è immortale.
Si è parlato tanto di “decostruzione della Roma bene “ con “La grande bellezza” di Sorrentino. Pensa se leggessero “Stavo soffrendo ma mi hai interrotto”…
Picconare la sfera dei ricchi è un trend immortale e universale. Da Oscar Wilde a Gossip Girl, tutti ad aprire le cabine armadio dei ricconi in cerca di scheletri o aneddoti. Secondo te perché molti artisti, soprattutto scrittori (penso a Roth o a F. S. Fitszgerald), ci tengono a riportare sulla terra questi rampolli, aggrappati alle sbarre della loro golden cage? E, soprattutto, perché anche tu?
Roth non è nato ricco, e oltre a un immenso talento, ha fatto del non parlare bene dei suoi simili la base del suo enorme successo, tanto da essere definito uno scrittore antisemita. Ma lui, quando per esempio scrive di sesso, si chiede se per caso una ragazza ebrea non faccia quelle cose descritte nel romanzo. Essere ricchi, ebrei, giocatori di polo, non ti dà la patente scaduta per certe pulsioni dell’essere umano, con le sue relative ossessioni. E io, parlando di me, ho parlato bene dei ricchi. Considera che nella comunicazione il benessere è sempre molto stereotipato, perché è più facile per chi non ha la tua stessa fortuna pensare che tu possa puzzare di sudore, essere sfigato con le donne nonostante lo spider o non essere un usignolo mentre canti sotto la doccia. La letteratura ha il compito di essere consolatoria, e in questo ci riesce benissimo. Il ricco, al cinema, nella letteratura, perde sempre, doppiato dal povero ma bello che mette in campo tutto ciò che ha dovuto per forza di cose alimentare per colpa di privazioni fatali: talento, ingegno, savoir faire. La verità è che io sono piuttosto incline alla malinconia già così. Se fossi nato povero, sarei un depresso cronico.
Hai consegnato il tuo nuovo manoscritto al tuo nuovo editore. Sull’argomento trattato, tutto tace. Altro pharmacòn autobiografico? O qualcosa che non ci aspettiamo?
Ancora autobiografico. Non è la scelta legittima per un genere che mi riesce bene. E’ che io scrivo perché posso sopportare la realtà solo scrivendola. Quelli che con tanta enfasi si prodigano in complimenti sul mio talento, dovrebbero capire una cosa elementare, quasi banale: non sono bravo, sono solo sfigato.
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