Tra i giri di appartamenti a ridosso e immediatamente successivi al sequestro Saronio, un punto in comune c’è: è l’agenzia immobiliare Meson e meglio controllare allora tutti i contratti di locazione che ha stipulato. Le sorprese non mancano. Dei servizi di quest’agenzia ne hanno infatti usufruito il 14 maggio 1975 il pregiudicato Vincenzo Bizzantini e Gennaro Piardi, soprannominato anche “Ciccio il Bello”, che avevano affittato insieme un appartamento in via Marcona e avevano versato un anticipo di un milione e 215mila lire tenendo però l’immobile pochissimi giorni. A questo proposito, Bizzantini ammette infatti di aver affittato quella casa nel maggio 1975 per conto di Carlo Casirati, ma di averla disdetta tra il 22 e il 23 maggio: il 20 di quel mese infatti lo stesso Bizzantini viene fermato e identificato durante un controllo dalla polizia mentre, alla guida di una A112 Abarth acquistata due giorni prima, sta accompagnando a Treviglio Gennaro Piardi e Rossano Cochis.
L’utilitaria dell’Autobianchi in quegli anni non era diffusissima a Milano e un facile controllo al pubblico registro automobilistico permette di verificare che un’auto di quel modello era stata immatricolata nel maggio 1975 proprio da Gennaro Piardi. Ma al concessionario accade qualcosa di inusuale nel periodo che intercorre tra l’ordinazione e il ritiro del veicolo, avvenuto nel settembre 1975. Il rivenditore infatti ricorda il nome di Piardi, ma dice di non poterlo identificare per una ragione molto semplice: non l’ha mai visto in faccia. A ordinare l’auto infatti non era stato direttamente lui, ma Brunello Puccia, il gestore di un bar di via Roggia Scagna, che ne ordina anche un’altra per sé e che gli consegna il certificato di residenza di Gennaro Piardi.
Ma salta fuori anche un’ulteriore auto, la terza, identica alle precedenti, acquistata da un amico del barista, Alberto Monfrini. Tutte le utilitarie sono state pagate per intero in contanti. Strano, pensano gli inquirenti, che decidono di controllare i conti correnti di Puccia e di Monfrini accorgendosi che tra il 15 maggio e il 17 giugno 1975 il secondo aveva effettuato un versamento – sempre in contanti – di 10 milioni di lire e che nello stesso periodo entrambi avevano ricevuto assegni circolari di importo simile da un tale Giuseppe Astore. Il quale a sua volta finisce nell’indagine e si vede che aveva effettuato anche versamenti a proprio favore il cui valore complessivo supera gli importi poi girati a Puccia e Monfrini.
Astore sembra cascare dalle nuvole quando si ritrova indagato e nega ogni addebito: sostiene di non conoscere Monfrini e tutti i movimenti economici, che ne comprendono altri in contanti, non sono altro che un favore a Puccia con il quale ha un rapporto che rasenta la banalità: i due infatti vivono uno di fronte all’altro, sullo stesso pianerottolo, in un condominio di via Meucci. Astore prosegue raccontando che il dirimpettaio gli è sempre sembrata una brava persona o quanto meno uno che di casino mai ne aveva fatto e che aveva sempre risposto con gentilezza alle richieste dettate da contatti da buon vicinato. Tanto che quando Puccia gli si presenta e gli chiede un prestito che restituirà nel giro di qualche giorno per concludere un affare, Astore non ha sospetti e gli dà in più riprese non ricorda se due o tre milioni di lire. Per lui non è un grosso sforzo perché le sue disponibilità finanziarie sono sempre cospicue: titolare con il padre di una fabbrichetta per la lavorazione dei lamierati, di denaro contante ne maneggia parecchio. Effettuate le verifiche su quanto dice, gli investigatori stabiliranno che non ha mentito.
In proposito, invece, a mentire sembra essere Puccia: sì, quel denaro gliel’ha dato il vicino di casa, ma per aver commercializzato materiale in lamiera per conto suo. Solo che i riscontri in questo caso mancano e scatta un mandato di cattura nei suoi confronti e nei confronti di Monfrini per favoreggiamento reale nel sequestro Saronio. Ma continuare a rimanere zitti per difendersi e difendere qualcun altro non deve avere più senso per la banda. E così, dopo le prime confessioni, anche altri iniziano a parlare. Lo stesso Puccia nell’aprile 1976 decide di raccontare quello che sa e ciò che riferisce inizialmente agli inquirenti è di aver ricevuto da Carlo Casirati tra il 10 e il 21 maggio dell’anno precedente una somma complessiva di 60 milioni di lire, anche se – tiene a precisare – non conosceva affatto la provenienza di quel denaro. Il suo compito doveva limitarsi al riciclaggio e per farlo aveva utilizzato alcuni uffici di cambio in Svizzera, ma soprattutto il casinò di Saint Vincent. Inoltre si era prestato anche per acquistare la A112 Abarth per conto di Casirati facendola intestare a Gennaro Piardi il cui nome era stato usato da Casirati per il ritiro.
Nel racconto di Puccia a questo punto arriviamo al 21 maggio 1975: da quel giorno, Casirati scompare da Milano malgrado vantasse ancora crediti da chi doveva riciclare il denaro del riscatto. A farlo fuggire dal capoluogo lombardo è l’arresto di Carlo Fioroni, ma Casirati non dimentica i suoi debitori: qualche giorno dopo infatti telefona a Puccia e gli impone di consegnargli i 10 milioni che ancora deve versargli. Lo farà a Civitavecchia dove il malavitoso milanese si è rifugiato. E così avviene. I due si danno appuntamento in un bar non lontano dal porto e qui Casirati gli confida la provenienza dei quattrini: il sequestro Saronio. Ma non solo: aggiunge particolari che gli investigatori hanno solo intuito fino a questo momento, in attesa però della conferma che vada oltre la lista dei rivenditori di uniformi militari.
Senza mai fare il nome dei complici, Casirati racconta a Puccia che ad attendere Saronio davanti alla sua abitazione quella notte c’era una pattuglia di falsi carabinieri in divisa e che proprio riferendosi a un presunto controllo lo avevano avvicinato e fatto salire sulla loro auto. Una volta in trappola, però, colui che doveva stordirlo aveva premuto con eccessiva forza sul volto dell’ingegnere un tampone imbevuto di una sostanza tranquillante, uccidendolo. A rianimarlo i componenti del commando ci avrebbero pure provato (Fioroni dichiara che Casirati si sarebbe pure fermato in una farmacia per acquistare un cardiotonico), ma vista l’inutilità di qualsiasi intervento di pronto soccorso scaricano il cadavere dall’abitacolo e lo nascondono nel bagagliaio.
Alcuni dei sequestratori non rinunciano infine a raggiungere il covo presso cui Saronio sarebbe dovuto essere tenuto prigioniero e gli altri invece concludono quella tragica notte tornandosene tranquillamente a casa propria. Rimane però quel corpo che occorre far sparire e così – sempre secondo il racconto che Puccia fa dell’incontro con Casirati a Civitavecchia e delle confidenze che questi gli fa qui – la notte successiva ci si dà un nuovo appuntamento per la sepoltura senza però specificare il luogo, che dice di non conoscere con esattezza, forse dalle parti di Treviglio o di Cassano D’Adda: le due località lombarde non sono molto distanti, a separarle non ci sono nemmeno sette chilometri.
Qui comunque la salma di Saronio non sarebbe rimasta a lungo. Un mese più tardi, quando Fioroni viene arrestato in Svizzera, Casirati viene colto dal terrore che il politico possa cantare tutto alla polizia e si fa forza: da solo torna dove era stato sepolto Saronio, lo dissotterra e da qui lo trasporta in un cantiere facendo in modo che il corpo finisca in un blocco di cemento che avrebbe poi gettato in uno dei laghetti dell’Idroscalo di Milano. Le confidenze di Casirati a Puccia, almeno quelle fatte nel bar del litorale laziale, si concludono qui, ma i contatti non si interrompono. Casirati infatti gli telefona qualche giorno dopo – siamo ormai al luglio 1975 – dall’isola della Maddalena dove sta trascorrendo le vacanze come se nulla fosse insieme alla sua famiglia e insieme ad Alberto Monfrini.
Questa volta Casirati si limita a dirgli che sta per andare all’estero insieme alla sua compagna, Alice Carobbio, e dunque Puccia deve andare a prendere la A112 che gli lascerà parcheggiata nella piazzetta dell’isola con le chiavi nascoste sotto un sedile. Puccia va dunque a prelevare l’auto e già che c’è anche lui si ferma sull’isola dove incontra una faccia conosciuta: è Gennaro Piardi, “Ciccio”, lo stesso che Casirati gli aveva presentato poche settimane prima, che va in giro insieme a Cochis e a Mapelli e a due donne: una di queste risponde al nome Piera Tassarin, ma in realtà si chiama Maria Santa Cometti, l’amante di Merlo che aveva contribuito ad anticipare i soldi per gli acquisti di Gennaro Piardi e si era data da fare per riciclare 15 milioni del riscatto Saronio aprendo un conto bancario che chiude quasi subito.
Sempre lei in seguito si preoccuperà di spedire del denaro in carcere a Piardi e a pagare le spese legali per la sua difesa. Una volta avviata la fase istruttoria, Maria Santa Cometti rifiuterà sempre di rivelare il nome di chi le aveva consegnato quelle somme di denaro. Per il momento, però, va notato che il mondo è piccolo per questa banda di deliquenti, che si sia a Milano o in giro per l’Italia.
I malavitosi in vacanza alla Maddalena però vogliono la vettura. Puccia gliela consegna senza opporre alcuna resistenza, del resto quell’auto è intestata a qualcun altro. Ma il tutto avviene nella più totale tranquillità, tanto che di sera si svolge una cameratesca cena all’Hotel Calalunga a cui partecipano Puccia, Monfrini, Mapelli, Piardi, Cochis e un personaggio che tutti chiamano usando un soprannome. È il “Micio”, identificato successivamente come Enrico Merlo, e alla comitiva si aggregano anche due donne: una che sta con Cochis e l’altra con Merlo.
Casirati invece, che resta comunque in contatto telefonico con Puccia perché ci sono sempre quei 10 milioni da riciclare e restituire, sembra sparito dalla circolazione. Per i quattrini tuttavia occorre prendere tempo perché quel denaro non c’è più: nel tentativo di ripulirlo – dice Puccia – lo ha perso tutto al casinò di Londra e secondo lui Casirati e Alice, che insistono per ritornare in possesso della somma pur senza arrivare mai a minacce, sembra che non stiano più in Italia e nemmeno in Europa. Secondo il ricettatore, sarebbero fuggiti in Venezuela, a Caracas.
Per ricostruire – o quanto meno per avere un’idea – di una parte dell’organico della banda dei comuni che collabora con i politici al sequestro Saronio, ecco dunque che vengono in aiuto i registri e le testimonianze del personale dell’hotel presso il quale si danno convegno i malavitosi lombardi: qui infatti vengono registrati Guido Faccioni, Adriano Rivetta e Pierina Tassarin, cioè le identità fittizie sotto cui si celano Gennaro Piardi, Enrico Merlo e la sua compagna, Maria Santa Cometti. Partono ulteriori perquisizioni che comprendono anche l’abitazione di quest’ultima donna, e qui salta fuori un quadernetto, un vero e proprio registro contabile su cui sono state annotate dall’autunno successivo a quella vacanza sull’isola della Maddalena le somme che Cochis e Mapelli le hanno consegnato. Viene inoltre descritto il modo in cui questo denaro, dopo essere entrato, usciva perché consegnato a Piardi o a titolo di pagamento degli avvocati difensori di quelli che intanto erano finiti in carcere.
A questo punto riprendono anche gli accertamenti bancari e arriva la conferma che dal gennaio 1976 Maria Santa Cometti aveva versato su un conto corrente aperto appositamente presso la filiale di corso Buenos Aires del Banco di Sicilia una somma di quindici milioni costituita da 98 banconote da centomila lire e 104 da cinquantamila lire. Questa cifra rimane ferma sul conto fino al 20 aprile 1976, qualche giorno dopo la cattura di Mapelli, quando la donna la ritira con un unico prelievo rifiutandosi però di dire a chi l’ha consegnata: per lei scattano l’accusa e l’arresto inizialmente per falsa testimonianza e poi per ricettazione, falso in carta d’identità e favoreggiamento reale.
Ma, in base a quanto ricostruiscono le indagini, i favoreggiatori sono anche altri. Nel corso di ulteriori verifiche bancarie, emerge che il 21 aprile 1975 tale Domenico Papagni aveva due assegni circolari da quattro milioni intestati ad Alberto Monfrini e in seguito girati a Brunello Puccia. Il conto corrente su cui avvengono le operazioni è stato aperto da Papagni presso la Banca del Monte e da qui sono partiti sempre verso Monfrini altri due assegni il 12 e il 30 giugno 1975 del valore rispettivamente di due milioni e di 700mila lire. Inoltre, nel periodo compreso tra il maggio e il giugno sempre di quell’anno, Papagni si era visto accreditare 150 milioni da Pietro Cosmai e quel denaro era stato prelevato in più riprese fino a prosciugare del tutto il deposito. A questo punto per entrambi scatta l’accusa di favoreggiamento reale: l’ipotesi è che Papagni girasse a Cosmai le somme da riciclare e questi le facesse rientrare pulite tramite lettere di accredito emesse dalla Banca di Bisceglie.
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