Ha provato a resistere nel corso di quei mesi, ha provato ad addossare la responsabilità ai “comuni” e ha provato anche a calarsi nel quadro criminale che via via le indagini tracciavano, descrivendosi come una specie di salvatore, colui che prova tutto quanto in suo potere pur di salvare un amico. Ma Carlo Fioroni, una volta estradato in Italia, confessa tutto (o almeno così dichiara) e sarà talmente nutrita la sua confessione da andare a occupare 107 pagine dattiloscritte. Fioroni, che si vede che di cose da raccontare ne ha, ne scriverà altre sei solo per confermare quanto detto al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio.
Quando si decide a parlare, ammettendo di aver giocato un ruolo fondamentale nell’organizzazione del sequestro Saronio, fa una premessa: “Indipendentemente dalle intenzioni politiche che ne sono state all’origine, per un processo doloroso di autocritica che mi ha impegnato in questi mesi, ritengo di poter valutare questa impresa di cui mi assumo interamente la responsabilità, come la conseguenza aberrante di un modo di fare e di intendere l’intervento politico. Scagiono completamente gruppi od organizzazioni con cui posso aver avuto rapporti, nel senso che il termine politico che ho usato si riferisce non a rapporti organici ma ad un clima politico. Scagiono con questo anche i compagni Prampolini e Cazzaniga, a loro insaputa parzialmente coinvolti in questa faccenda”.
Parole complicate, frasi al limite del senso logico, per proseguire raccontando che dal luglio al dicembre 1974 si era concesso una specie di “vacanza” per costruire quei rapporti che lo avrebbero portato a organizzare il sequestro. Sequestro che sembra prendere concretamente forma tra il dicembre ‘74 e il febbraio dell’anno successivo, ma poi pare scemare perché non riesce a mettere insieme una banda.
Fioroni però non si perde d’animo e nel marzo 1975 si presenta a Carlo Casirati, gli offre di lavorare insieme al rapimento Saronio e aggiunge che lui lo fa per la “causa”, verserà la sua percentuale per finanziare la lotta armata. Casirati dal canto suo non si tira indietro: dispone dell’organizzazione necessaria e tutto ciò di cui ha bisogno sono informazioni sulla vittima. Quelle ce le mette Fioroni a iniziare dal tipo di auto che Saronio usa e dalla relativa targa. Inoltre, Saronio è una faccia sconosciuta?
Non c’è problema: il “politico” fissa per il 14 aprile un appuntamento con il giovane in un bar di Milano e avverte il “comune” che segue da lontano l’incontro. Intanto i due chiacchierano e Saronio, del tutto ignaro di ciò che si sta organizzando, racconta a quello che credeva un amico che è un periodo in cui fa un po’ tardi: dopo cena esce, raggiunge alcuni conoscenti e rincasa tra l’una e le due di notte. A questo punto il piano deve scattare subito. Del resto il gruppo di Casirati è già pronto e le notizie fornite da Fioroni sugli spostamenti serali di Saronio sono solo l’ultimo tassello mancante all’azione. Un’azione preparata con meticolosità: quella sera, infatti, tra la mezzanotte e l’una e mezza, ad attendere l’ingegnere c’è un’Alfetta con due carabinieri a bordo, una divisa che calza loro a pennello, e nessun testimone in giro.
I militari, una volta che Saronio ha parcheggiato, gli si avvicinano e gli dicono che lo devono seguire. Accertamenti, forse, e Saronio, da una ventina di giorni in odor di indagini antiterrorismo anche se a suo carico pare non essere stato ancora preso alcun provvedimento, non oppone resistenza e pensa che debba trattarsi di un controllo, al massimo una notte in cella di sicurezza in attesa che la sua posizione venga chiarita. Così sale sull’auto dei militari, ma deve accorgersi presto che quelli non sono davvero carabinieri, anche se indossano una divisa.
Nell’abitacolo, sul sedile posteriore, ci sono anche altre due persone, due sconosciuti, che non sfoderano nessun tesserino di riconoscimento e Saronio, probabilmente in mezzo ai due, ha la conferma che quelli non c’entrano nulla con nessun accertamento e non stanno andando in caserma, ma chissà dove e per chissà quale motivo. Allora – sempre secondo il racconto di Fioroni, che tuttavia non è presente quella sera per non farsi riconoscere – l’ostaggio abbozza una reazione, si agita, forse cerca di scavalcare gli uomini che lo affiancano e qualcuno gli preme sul volto un tampone imbevuto di anestetico, forse cloroformio, lo stordisce e l’Alfetta può partire alla volta di Sanremo per nascondere Saronio nella villa di un ex-croupier del casinò.
Risvegliatosi dallo stordimento, l’ingegnere milanese non vuole avere niente a che fare con le trattative avviate dai sequestratori e rifiuta di collaborare. È a questo punto che Fioroni fa un altro pezzo del suo lavoro e fornisce le informazioni taciute da Saronio. Il quale, dopo il pagamento del riscatto, non viene rilasciato perché la cifra è troppo modesta rispetto alle reali possibilità della famiglia e deve essere considerata solo un acconto. Nel frattempo, malgrado l’interruzione di qualsiasi contatto con la banda, Carlo verrebbe trasferito dalla Liguria alla Calabria, dove secondo Fioroni si trova ancora.
Ma non può fornire agli inquirenti informazioni più dettagliate perché oltre a Casirati non conosce altri componenti della banda, se non De Vuono che si sarebbe occupato dei contatti con la famiglia. Anche le altre notizie sarebbero solo di seconda mano: il gruppo dei sequestratori avrebbe dovuto essere composto per una metà da calabresi e per l’altra da bergamaschi, ma questi ultimi a un certo punto si sarebbero tirati indietro costringendo a una campagna acquisti dell’ultimo momento affidata a De Vuono. Oltre ai bergamaschi c’è da rimpiazzare anche un altro personaggio, un tale “Silvio”, appena finito in galera per tentato furto: l’annuncio del suo arresto viene dato proprio il giorno in cui Casirati presenta De Vuono a Fioroni in una trattoria di Lambrate.
A un certo punto, durante il pranzo, si presenta infatti una donna, Gioele Bongiovanni, in lacrime perché “il Silvio” quella mattina si era beccato una condanna a sei mesi di reclusione. Ma c’è un altro personaggio della mala lombarda di cui Fioroni fa il nome: è Rossano Cochis, un “comune” che appartiene alla banda dei bergamaschi e che inizialmente – dice il politico – avrebbe dovuto partecipare al sequestro. Lo ha conosciuto nel luglio 1974 e, a detta questa volta di Casirati, è come lui nel pieno di un’evoluzione politica: va dunque “recuperato” ideologicamente, aggiunge. Ma poi non se ne fa più nulla: Cochis e Casirati litigano, il primo non si fida del secondo. Anzi ne ha una considerazione piuttosto bassa e così i loro contatti si interrompono: ognuno si mette a lavorare per proprio conto.
Nel frattempo le fila dei presunti sequestratori in carcere si è allungata. La notte del 19 ottobre 1975 un individuo vede passare una volante della polizia e cerca di darsi alla fuga, ma gli agenti a bordo lo bloccano e lo identificano. Si tratta di Francesco Berruti che con sé ha un revolver 38 Special non denunciato e carico. A una verifica più approfondita si scopre però che la carta d’identità dell’uomo è falsa e in realtà si tratta di “Ciccio”, Gennaro Piardi, il pregiudicato che aveva incontrato più volte Casirati e Del Vuono nel periodo che aveva preceduto e seguito la sparizione di Saronio. Fonti confidenziali della polizia dicono inoltre fin da giugno che Piardi è uno degli autori materiali del sequestro al quale avrebbero collaborato anche altri due comuni, Demetrio Poma e Giuseppe Cleopatria.
Gli stessi confidenti aggiungono anche altri elementi: il 15 settembre “Ciccio” si era registrato sempre con il nome di Francesco Berruti all’Hotel Nasco di Milano. Con lui c’erano altre due persone: Adriano Rivetta (identità falsa sotto cui si cela Enrico Merlo detto il “Micio”) e Giovanni Mapelli. E Piardi nei mesi successivi al rapimento non era stato fermo, ma aveva proseguito in continue peregrinazioni in diverse regioni. Se in settembre, sempre in compagnia di Rivetta-Merlo e Mapelli, aveva alloggiato in vari alberghi nella zona dei laghi lombardi, era accaduto che appena dopo il pagamento del riscatto, dal 23 al 26 maggio 1975, fosse arrivato all’Hotel Miramare di Santa Margherita Ligure. Questa volta era con Rossano Cochis, Vincenzo Bizzantini e Antonio Gerace. Dopodiché una comitiva composta da Mapelli, Cochis e Rivetta era ripartita e in luglio si presentava all’Hotel Calalunga sull’Isola della Maddalena.
Qui insieme a loro comparivano altri due personaggi: Pierina Tassarin e Guido Faccioni. Indagando ulteriormente, si accerta che dietro a questo rutilare di identità si celano sempre le stesse persone: Faccioni infatti non sarebbe altri che Gennaro Piardi, che in Sardegna ci arriva a bordo di un motoscafo nuovo di zecca acquistato per tre milioni di lire da un rivenditore milanese e pagato in contanti da Giovanni Mapelli con soldi – pare – anticipati da Rossano Cochis. Il quale butta sul piatto un terzo del valore del natante e convince Maria Santa Cometti, amante di Enrico Merlo, a partecipare al prestito a favore di Piardi perché tanto questi ha diversi crediti da esigere.
L’acquisto del motoscafo però sarebbe stato fatto per conto di Casirati che qualche giorno lo trascorre pure lui all’Hotel Calalunga della Maddalena insieme ad Alice Carobbio. Tornando a Gennaro Piardi, questi in Sardegna prima esibisce un milione e mezzo di lire in contanti, poi prosegue le vacanze sul lago Maggiore e infine espatria senza avere ad attenderlo un lavoro che gli permetta di mantenersi. Dunque deve poter contare sul denaro che porta con sé. Tutto questo però mal si adatta all’immagine che fino a quel momento l’aveva caratterizzato: un venditore ambulante male in arnese che gira l’Italia per smerciare capi d’abbigliamento e che comunque rimane sul groppone economico di qualche amico che ogni tanto gli allunga un po’ di denaro.
Insomma per tutti a moltiplicarsi non sembrano solo essere i nomi, ma anche il denaro. Se Casirati e Piardi infatti erano noti per essere degli spiantati, dopo la metà di maggio iniziano a disporre di somme all’apparenza ingenti e la circostanza, considerata ben più di una coincidenza, si trasforma anche per Piardi in un’accusa per concorso in sequestro di persona. E in dibattimento le sue presunte responsabilità si appesantiranno con un capo di imputazione per omicidio.
- 1. Valerio Evangelisti: i pentiti di niente e i demoni moderni
- 2. Milano, 14 aprile 1975, l’ingegnere è stato rapito
- 3. E subito si giunse ai primi sospetti
- 4. Lugano, 16 maggio 1975: una valigia piena di denaro
- 5. Giugno 1975: le indagini si estendono