Carlo Fioroni ricompare all’inizio del gennaio 1987: è in Francia dove insegna italiano a Lille da alcuni anni con il supporto delle autorità diplomatiche tricolori. Da quanto racconta, non fa certo mistero della sua residenza: a un certo punto afferma infatti di aver conosciuto una ragazza, di essersene innamorato e di aver deciso di sposarsi. Allora nel marzo 1986 scrive personalmente una lettera a Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell’interno nel secondo governo Craxi, e si rivolge alle autorità francesi per chiedere la naturalizzazione o quanto meno un permesso di soggiorno di lungo periodo, che gli vengono entrambi negati.
Ma come? Farnesina, Viminale e inquirenti, che tramite l’Interpol lo cercavano in 134 paesi, non lo consideravano irreperibile fin dal 1983 quando valica i confini nazionali, forte del suo discusso passaporto, facendo perdere le sue tracce? Nel periodo della sua latitanza francese si fa chiamare Giancarlo Colombo, ma quando serve presenta documenti su cui sono riportate le sue vere generalità. E parla, Fioroni, in un’intervista al GR1 dicendo che nessuno lo aveva convocato per testimoniare al processo “7 aprile”: mai alcuna comunicazione giunse a lui o ai suoi genitori, residenti in Italia. Di fatto, accertati i movimenti dell’uomo in tutto quel periodo, le cose non starebbero proprio così.
A metà 1984, infatti, di fronte alla necessità di metterlo a confronto con gli imputati del “7 aprile”, la corte d’assise di Roma chiede che Fioroni sia rintracciato e da Roma la richiesta rimbalza a Varese (nella cui provincia Fioroni è nato) e a Milano (dove ha a lungo vissuto). Il 14 novembre 1984 Aurelio Fioroni, padre di Carlo, risponde agli investigatori di sapere solo che il figlio è all’estero, forse in Inghilterra, ma meglio chiedere all’avvocato di Latina che lo dovrebbe rappresentare. Per la sorella, invece, Carlo è negli Stati Uniti o in Canada e pochi giorni dopo Aurelio Fioroni ammette di aver ricevuto in precedenza una telefonata del figlio: lui lo informa che in Italia lo cercano perché vada a Roma a testimoniare al processo “7 aprile”, ma lui risponderebbe che non se la sente. A questo punto, siamo al 29 novembre 1984, parte l’ordine ufficiale di ricerca all’estero e viene fuori che l’uomo sarebbe ad Amsterdam, dove avrebbe chiesto aiuto alle autorità consolari, ma qui si fermerebbero le tracce che lascia dietro di sé.
Tornato sulla pubblica ribalta dopo l’intervista del gennaio 1987 al GR1, Fioroni accetta di rimpatriare per deporre al processo Metropolis che si sta svolgendo in quei mesi nell’aula bunker del Foto Italico: avviato il 26 giugno 1986, ha lo scopo di stabilire che contatti ci fossero tra l’omonima rivista, Autonomia Organizzata e le Brigate Rosse e in particolare se due suoi redattori, Lanfranco Pace e Franco Piperno, abbiano avuto a che fare con il sequestro Moro. L’indagine parte con la pubblicazione di un fumetto che ricostruisce il rapimento del leader della DC e il successivo “processo” a cui fu sottoposto dai brigatisti e in istruttoria si ipotizza di nuovo che dietro alle diverse etichette ci fosse un piano di unificazione dei movimenti armati degli anni Settanta.
Tra i testimoni ci sono nomi rilevanti: i terroristi Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Adriana Faranda, il pentito Antonio Savasta, il giornalista Giorgio Bocca e il leader radicale Marco Pannella. E c’è ancora lui, Carlo Fioroni, nella doppia veste di testimone e imputato nel procedimento connesso al processo “7 aprile” che rincara la dose rispetto a quanto dichiarato nel 1979. Innanzitutto – interrogato dal presidente della corte d’assise, Severino Santiapichi – sostiene di aver fatto parte di tutto o quasi: dopo Potere Operaio e il suo braccio armato, Lavoro Illegale, e dopo i GAP di Feltrinelli, ha militato nel FARO (Fronte armato resistenza operaia), nel gruppo di Rosso e infine in Autonomia Organizzata con Toni Negri. Ma nella sostanza non aggiunge nulla: dietro tutto c’erano sempre loro, gli imputati, e quando gli si chiede della latitanza in Francia viene salvato dal suo difensore che sostiene che la domanda non ha attinenza con i fatti legati a Metropolis.
Controinterrogato dagli avvocati dalla difesa, darà una versione diversa rispetto a quanto dichiarato ai microfoni del GR1: sapeva di dover deporre al processo “7 aprile” anche se i giudici italiani non potevano averlo convocato perché non conoscevano il suo indirizzo e non è tornato in patria per timore di essere assassinato. Del resto dopo la sua dissociazione – prosegue e le sue dichiarazioni vanno prese ogni volta con le molle – già quando era in prigione in Italia se la passava male, tanto che nel periodo di detenzione nel supercarcere di Fossombrone le avrebbe prese da Renato Vallanzasca sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi ex-compagni. Inoltre su di lui pendeva un’esplicita condanna a morte emessa da un tribunale rivoluzionario. Così venne trasferito a Matera e tenuto sotto costante sorveglianza. E di qui prosegue in un racconto da romanzo.
Rilasciato nel febbraio 1982, per un paio di giorni viene ospitato dal direttore dell’istituto di pena perché fuori non c’è nessuno che possa accoglierlo. Poi vengono a prenderlo due funzionari del ministero dell’interno che lo portano a Roma e di qui l’odissea che narra prosegue:
Mi chiesero cosa intendessi fare e io proposi di mandarmi in un paese dell’Africa a lavorare in una comunità religiosa. Mi consegnarono un passaporto di copertura, rilasciato dalla questura di Roma, e con quel documento espatriai provvisoriamente in Svizzera. Dopo alcuni giorni mi dissero di recarmi in Marocco dove avrei incontrato un religioso, ma quest’ultimo non si fece vivo. Ritornai in Svizzera e fui invitato a ritornare in Marocco, questa volta riuscii a parlare con la persona indicata ma mi disse che non c’era alcuna possibilità per una mia occupazione. Altro ritorno in Svizzera ma la polizia elvetica scoprì le mie vere generalità e dopo un giorno di arresto mi consegnò alla polizia italiana al posto di frontiera. Mi nascosi in Italia, poi attraverso il mio avvocato chiesi e ottenni il passaporto intestato a Carlo Fioroni. Ho girato alcuni paesi europei per mio conto, con l’aiuto di miei amici ho trovato un lavoro saltuario a Lille dove tutti mi conoscono come Giancarlo Colombo.
Franco Scottoni, cronista del quotidiano “La Repubblica”, lo incalza e gli chiede:
Nell’intervista che ha concesso al GR1, lei ha affermato che chi doveva sapere dov’era lo sapeva: quindi i servizi segreti italiani conoscevano il suo indirizzo in Francia?.
A domanda Fioroni risponde:
Premetto che io non ho rilasciato nessuna intervista. Una giornalista mi ha telefonato e abbiamo parlato per 5 minuti. Ritenevo che fosse una comune conversazione telefonica, invece è stata trasformata in una intervista alla radio. Ho detto quella frase ma era soltanto una battuta nel contesto di un discorso molto più ampio. Nessuno sapeva dove mi trovavo ad eccezione di alcuni intimi.
Detto questo, il “professorino” ha dichiarato abbastanza alla corte e alla difesa e può riprendere la via della Francia. Ha rivelato la verità almeno questa volta?
Che Fioroni sia stato aiutato a lasciare il paese dalle istituzioni lo ammette Oscar Luigi Scalfaro, il quale però, a titolo di una tardiva giustificazione, aggiunge che nessuno poteva obbligarlo a deporre, che chi lo cercava ignorava davvero dove si trovasse e che in Francia riuscì a sparire perché non usava il suo vero nome, ma quello di Giancarlo Colombo.
In questo clima all’inizio del 1987 si va verso l’apertura del processo d’appello “7 aprile” che si apre il 23 gennaio sempre nell’aula bunker del Foro Italico. Davanti ai giudici ci sarà il grande accusatore, Carlo Fioroni, ma in aula non sarà presente questa volta Toni Negri, rifugiato in Francia dopo la sua elezione a deputato nelle liste del Partito Radicale. A Parigi si trova anche Oreste Scalzone, pur facendo sapere di essere disponibile a rientrare da Parigi con un salvacondotto che gli consenta di testimoniare al processo Metropolis senza essere arrestato. Nessuna obiezione del presidente Santiapichi.
L’appello si apre in modo eclatante: il collegio della difesa chiede l’annullamento del processo concluso nel 1984 per i gravi errori causati dagli scontri procedurali che hanno caratterizzato giudici istruttori e di primo grado, affaire Fioroni prima di tutto. Inoltre si chiede l’acquisizione di nuovi documenti e l’interrogatorio di testimoni non sentiti in precedenza. L’istanza di nullità viene però respinta, il processo d’appello si celebra e sei mesi più tardi, l’8 gennaio 1987, ecco che giunge la più grande delle sconfessioni: nel corso del dibattimento non sono emerse prove che suffraghino l’ipotesi di un’insurrezione contro lo Stato. Dunque, per questo reato, tutti gli imputati vengono assolti.
Per capire quali siano le ragioni dei giudici occorre attendere ancora un semestre perché vengano depositate le motivazioni della sentenza, oltre quattrocento pagine che arrivano il 28 gennaio 1988. Innanzitutto a proposito del sequestro di Carlo Saronio, si dice che sicuramente nacque negli ambienti della criminalità politica milanese e che venne messo a segno con il supporto di una banda di delinquenti comuni al cui capo c’era Carlo Casirati, ma non c’è elemento alcuno che colleghi il rapimento a una decisione presa dai vertici di Autonomia Organizzata.
Inattendibili e contraddittorie inoltre le testimonianze di Fioroni e Casirati. Il professore padovano viene considerato comunque l’ideatore della rapina – ritenuta a sfondo politico – ad Argelato in cui morì il brigadiere Lombardini e ferito il carabiniere Sciarretta: a suo carico viene dunque riconosciuto il concorso morale. Per quanto riguarda gli altri imputati, le motivazioni sostengono che parteciparono ad attività sovversive o a bande armate: è il caso di Oreste Scalzone ma non di un altro ex-dirigente di Potere Operaio, Emilio Vesce, che va assolto perché non c’è prova che dalle parole di violenza sia poi passato ai fatti. Assoluzione anche per Luciano Ferrari Bravo, Lucio Castellano e Paolo Virno.
Dunque il teorema della grande “Organizzazione” e dei suoi strateghi viene spazzato via e in carcere rimangono singoli personaggi che si conoscono, che per periodi più o meno lunghi ebbero a che fare l’uno con l’altro, che di reati legati alla clandestinità e alla lotta armata si macchiarono, ma che non ordirono alcun piano eversivo globale né puntarono a scatenare una guerra civile. E rispetto al primo grado, le condanne formulate nel secondo grado sono molto meno gravi: 12 anni per Toni Negri (condannato anche a risarcire Vittoria Fiorasi, la vedova del brigadiere Andrea Lombardini), e 8 per Oreste Scalzone. Per quanto tempo debbano rimanere ancora dietro le sbarre è fatto da stabilirsi perché vanno conteggiati gli anni di carcere preventivo già scontati. Inoltre Rossano Cochis, la cui posizione si trascina dai tempi del primo processo Saronio, vede cancellare la sua pena (4 anni e 2 mesi) grazie alla prescrizione e lo stesso accade ad Augusto Cavallina. Infine per Gianfranco Pancino è stato disposto l’annullamento del processo di secondo grado, che andrà celebrato nuovamente.
Le posizioni dei singoli condannati sono diventate definitive all’inizio di ottobre 1988 quando vengono confermate dalla corte di cassazione. Così gli imputati assolti tornano a casa, chi ha residui di pena da scontare si vede poco dopo riconosciute forme alternative alla detenzione in carcere e scompaiono anche i pentiti, risucchiati dal ritorno alla normalità. Anni di calunnie, di storie fantasiose, di ricostruzioni mai definitive finiscono. Almeno in questo caso. E di Carlo Saronio si tornerà a parlare sempre più sporadicamente, un ricordo scolorito schiacciato da quasi verità che mai furono autentiche. Ma che comunque furono gratificate.
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