In questa contemporaneità segnata dalle sconfitte: ideologie, rivoluzioni, religioni, ragione e lumi, qualche edificio di principi e qualche movimento trionfano. L’ideologia liberista, una parvenza di tecnocrazia al servizio del profitto più rapace ancorchè immateriale. E la sfrontata riscossa degli svergognati, nelle cui file militano orgogliosamente “erranti” di ogni tipo: impenitenti piegati alle ragioni dell’interesse e della convenienza o meglio ancora quella categoria benedetta dall’emancipazione anzi dalla fierezza di ammettere l’errore, si, la valutazione sbagliata e criminale, ma motivata dallo zeitgeist, dalla belle e ingenua innocenza, dall’infanzia difficile, dal fatto che quando a scuola c’era educazione civica loro erano a casa con morbillo.
Una volta quelli che sbagliavano si vergognavano, si prendevano a schiaffi davanti allo specchio, erano mortificati, si blandivano senza successo: errare umanum est, ma poi sprofondavano nella contrizione. Ma erano altri tempi. Adesso ci sono i Tremonti che rivendicano gli errori come virtù e i Berlusconi che riottosamente lo fanno anche con i vizi. Ci sono quelli, assimilabili ai già citati, che affermano tenacemente che non c’è la crisi e poi che si sono sbagliati ma l’hanno già risolta. E ci sono quelli che in un giocondo oblio da lotofagi, rimuovono responsabilità di governo per convertirsi sveltamente alla lotta. Ma ci sono anche quelli che fanno dell’errore un vezzo leggiadro e consigliabile, come una delicata strada per giungere al “giusto” attraverso lo “sbaglio”.
Così deliziosamente Monti ci rivela che l’operazione Alitalia non lo persuadeva e che l’ha subita non avendo incarichi dai quali contestarla, ma con la stessa ferma convinzione nomina ministro strategico il suo artefice, che tanto se ne vanta nel suo curriculum. O con altrettanta fermezza spregia le malfamate agenzie di rating, che, travalicando la funzione tecnica di valutare i rischi dei singoli titoli, si sono auto attribuite il compito di giudicare l’affidabilità complessiva del debito pubblico dei governi. Dimentico che se “i governi non governano il mondo, Goldman Sachs governa il mondo”, e lui lo sa meglio di chiunque altro. Insomma non rinnegano, non deflettono, sono stati silenziosi, complici, propugnatori e sono pronti a continuare ad esserlo in assoluto dispregio di onestà intellettuale, interesse generale e senso del ridicolo. È la loro forma di coerenza alla quale finiremo per preferire gli arcaici voltagabbana.
Non è bello stare in panchina a guardare, o affacciati al davanzale della vita, malmostosi e lagnosi, tentati dai forconi ma ridotti a missive tramite blog, rinviate al mittente come per Herzog. Tacciati di disfattismo, rovinologia, dietrismo e chi più ne ha più ne metta. Come se non fosse invece davvero devastante l’atteggiamento rinunciatario di chi asseconda più o meno entusiasticamente il percorso cui sembriamo condannati. Perché, ci dicono, non c’è alternativa. E la necessità impone insieme ai sacrifici, anche le dimissioni dalla creatività politica, dalla ricerca del bene comune, insomma di una salvezza che non comporti la morte dei diritti e delle speranze.
Questo governo ideologico è anche davvero un governo di tecnici, infine. Tecnici del profitto a ogni prezzo, perfino con le carceri. Tecnici dei licenziamenti, tanto è vero che si avvalgono dell’esperto Ichino noto per essere stato buttato fuori da un incarico elettivo. Tecnici della povertà, senza un vissuto personale in materia, ma bel collaudati nel procurarla.
Sembra invece che scarseggino i tecnici del futuro radioso o del futuro comunque, del lavoro, della dignità, della legalità, della certezza del diritto e dei diritti. Anche tra i partiti che dovrebbero aver fatto del nostro bene il core business -perché di ideologia è meglio non parlare e nemmeno di idee, che anche quelle come la critica sono considerate socialmente dannose-. Arresi alla convinzione statica, secondo cui il capitalismo non solo è forma durevole e ricorrente nelle più varie epoche, ma è anche l’approdo finale dell’organizzazione sociale, cui bisogna adeguarsi, magari illudendosi di temperarlo con un pizzico di democrazia o blandendolo con qualche rinuncia in più. Cedendo anche ai più infami ricatti di “principio”, mossi dalla solita coalizione dei padroni e padroncini.
A volte chi sta seduto nella panchina anche senza essere allenatore vede di più del mister e dei giocatori. Basta un po’ di quella che si chiamava una volta volontà politica insostituibile dal dinamismo tecnico. Basterebbe guardarsi un po’ indietro a certi new deal e intorno oltre il Reno. Invece di foraggiare le banche per incoraggiare la crescita privata forse si potrebbe immaginare invece uno Stato sovrano nel creare lavoro, un job act, in fondo ci riesce perfino Obama che non appartiene di certo all’Internazionale trozkista, un programma di rilancio del lavoro e dell’economia basato su un investimento pubblico per assunzioni quelle sì davvero produttive nel campo dell’istruzione, dei servizi, della cultura, del paesaggio, delle piccole opere diffuse, dell’assistenza, trasformando il terrorismo del deficit nel pragmatismo della ragione. La ragione anche degli altri, di noi tutti.