Alcuni nascono figli d’arte, altri figli della mafia. È il caso di Peppino Impastato (Cinisi, 1948) che, però, prende in mano la vita e guarda in faccia il destino, non per contemplarlo – come si può fare con le stelle – ma per prenderne coscienza.
Alla logica imperante della sua famiglia si oppone con rabbia e disperazione, per smettere di soffocare un “io” pulito, che non ha voglia di immischiarsi in certi loschi giri e che, allo stesso tempo, non può restare indifferente.

È questa voglia di cambiamento, la convinzione della sua necessità, a portarlo alla politica, al giornalismo, a un’attività culturale che formi e informi. Paura e voglia di costruire sono i binari entro cui si muove la vita di Peppino che, dal ’77, mette su una radio per dare voce a un’esperienza nuova, che vive su tre livelli: informazione e controinformazione, intervento politico e spazi autogestiti.
Tutto questo movimento, questo fermento, fluisce nelle poesie che Peppino scrive negli anni ’70, nel vigore della gioventù, quella splendida età connotata da spinte ed energie propositive, che assorbono quanto gli si presenta: dall’amore per Anna (il cui acrostico rivela un messaggio di triste e quasi premonitrice consapevolezza dovuta a quella scelta forte di lotta per la legalità: “Amore Non Ne Avremo”) alle tematiche politiche agli scorci di certi scenari, con un tono di mestizia e lieve distacco che raggiunge vibranti punte di determinazione.

Gli uomini guardano il cielo
e si stupiscono,
guardano la terra
e si muovono a pietà,
ma, stranamente,
non si accorgono di loro stessi.
Susanna Maria de Candia