Non so quanto conti in Italia commemorare un morto. Non lo so, perché la memoria di qualcuno che è viene ucciso per un motivo, un
Striscione commemorativo di Peppino Impastato
motivo importante, se diviene semplice data da appuntarsi sul calendario non serve a nulla, si svuota del suo stesso valore.
Anche se non l’ho conosciuto, credo che penserebbe questo, Peppino Impastato, di fronte a chi oggi lo ricorda assieme a tante altre vittime di mafia e domani siederà comodo dietro una scrivania, in un’aula di Parlamento, in un tribunale, lasciando che tutto riparta sempre uguale e nulla spezzi un meccanismo di potere radicato nelle nostre terre e nei nostri corpi da troppo tempo.
Cinisi, 9 maggio 1978. Peppino Impastato viene legato al tritolo e fatto esplodere sulla tratta ferroviaria Palermo-Trapani. L’esecutore è Salvatore Pallazolo, il mandante Gaetano Badalamenti detto Tano. Le indagini subiscono fin da subito depistaggi. Le prove vengono alterate e si ipotizza che il suo sia stato un gesto suicida o, ancora peggio, un fallito tentativo terroristico. Al funerale il paese non si presenta, ma da tutta la Sicilia accorrono persone, per lo più ragazzi, che si riconoscono nelle parole che Peppino ripeteva per radio, nei suoi principi, nella sua intransigente lotta contro il potere mafioso.
Tullio Giordana dalla sua storia ne trae un film, splendido, in cui Lo Cascio interpreta la parte del protagonista. I Modena e Pippo Pollina qualche anno dopo incidono due brani ispirati al film che hanno trasportato la storia di Peppino Impastato in tante piazze, formando intere generazioni. Oggi, dopo trentacinque anni, il suo nome rimbalza dalle labbra di tanti che rendono ancora omaggio a quel ragazzo magro, tenace, impavido, che si ribellò alle stesse leggi della sua famiglia. “Mise all’angolo la mafia deridendola”, dice Laura Boldrini, presidente della Camera. “Peppino Impastato aveva 30 anni, un coraggio da leone, e lo ammazzarono”, questo il tweet che ha inviato Piero Grasso in mattinata. Eppure non basta. Non basta ricordarlo, fare il suo nome, rendergli simbolicamente omaggio durante l’anniversario della sua morte. E’ un gesto importante, questo sì, soprattutto considerando il fatto che i libri di storia ignorino l’accaduto e molti preferiscano inabissare la sua morte. Spingerla un passo più in là, nel grande pentolone del dimenticatoio. Però, pur rendendo merito a chi lo ricorda, ci vorrebbe qualcosa di più.
Quello stesso qualcosa che darebbe finalmente giustizia a lui e a tutte le altre vittime di mafia – da un Falcone o un Borsellino alle persone sconosciute ai più ma non per questo meno degne. Ci vorrebbe unanime volontà di distruggere le fondamenta su cui si fonda il potere mafioso. I traffici illeciti che fatturano milioni e milioni. L’intera economia sporca che ne deriva. Bisognerebbe recidere tutti i punti di contatto tra Stato e Mafia, tra istituzione e illegalità, tra giustizia e crimine. Una lotta reale, collettiva, atta a ripulire a fondo l’Italia intera, qualunque sia il prezzo da pagare. Altrimenti di una commemorazione non ce ne si fa nulla. Serve soltanto ad alzare di una stanghetta il livello di ipocrisia del nostro Paese. Un Paese che riesce a versare lacrime per la memoria di Giulio Andreotti, personaggio toccato dall’ombra della mafia e il giorno dopo a raccogliersi insieme nel nome di Peppino Impastato e Aldo Moro.
Articolo di Virginia Giustetto.