PERIODICA...LEGGERE PER...
UN LIBRO TRA LE MANI
... IL LIBRO CHE HO TRA LE MANI... IL ROMANZO “I FUOCHI DEL BASENTO” DI R.Nigro
PERCHE' QUESTO ROMANZO ???
RIPRENDO L'INCIPIT DI QUESTA INIZIATIVA E RISPONDO NON AD UNA
MA A UNA SERIE DI DOMANDE
1- PERCHE' QUESTO ROMANZO
Fin dalla prima volta in cui l' ho letto, parecchio tempo fa preparando una lezione per un Laboratorio di Lettura da proporre a miei giovani studenti, mi hanno soprattutto affascinato i fatti narrati, un viaggio nella storia della Lucania, in particolare delle terre intorno all'Ofanto, con Pasquale Nigro che, sul finire del Settecento, raccontava ai figli e ai nipoti le gesta del brigante Angelo Del Duca, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, e poi con il figlio Francesco Nigro, il cui sogno era quello di riuscire a leggere e a scrivere e aveva nel sangue, come altri discendenti della famiglia, la musica dei cantastorie, ma che presto, rivoltatosi contro i padroni, si troverà a fare il capobrigante.
2- QUALE AMBIENTAZIONE ?
L'ambientazione è quella del periodo che vide l'invasione del Regno delle Due Sicilie di re Ferdinando I ("re Nasone") da parte dei francesi di Napoleone, guidati dal generale Pallavicino. Questa guerra, con il continuo reclutamento di giovani per organizzare "un imponente esercito straccione", e contrastare il forte ed inarrestabile esercito francese, è lo fondo della storia narrata. In mezzo stanno i briganti, e i fuochi richiamati dal titolo sono, in principio, i fuochi dei bivacchi dei loro leggeri e fugaci accampamenti e, poi, quelli dei viaggiatori che attraversavano quelle terre, o dei due eserciti che si fronteggiano, o dei disertori alla macchia sui monti per non finire a combattere in Siberia. Quando re Ferdinando decide la fuga, il vento francese della libertà incoraggerà i primi coraggiosi a rivendicare le terre dei latifondi ("Ci si camminava col cavallo per giornate intere senza mai sconfinare, da dove nasceva a dove moriva il sole") e affrancare i contadini "dalle servitù, dalle decime, dai terraggi." Francesco Nigro, "il generale", che non ha mai abbandonato la sua passione per i libri di cui va facendo incetta nelle sue scorrerie, decide di schierarsi dalla parte degli insorti.
3- COME L'AUTORE ESALTA LA STORIA NARRATA?
Il romanzo "I fuochi del Basento" conferma e moltiplica, con la potenza e la suggestione delle grandi storie, l'autorevolezza dell' autore, che ben si inserisce, a mio avviso, nel filone della grande letteratura meridionalista, che ha visto fiorire opere quali, ad esempio: I Malavoglia, I Viceré, Fontamara, Cristo si è fermato a Eboli. In sostanza si allinea con i miei scrittori italiani preferiti, Levi, Pirandello, Sgorlon e Abate.Emblematica la descrizione, al capitolo 27, della morte di mamma Teresa Parlante Nigro, la quale riesce a raccogliere e rimembrare tutti i secoli che hanno segnato una donna del Sud e difficilmente se ne legge una eguale per forza di immagine, per suggestione, tenerezza; nonché il matrimonio di Teresa Addolorata, con quel superbo rituale antico: la sposa "Per otto giorni non sarebbe uscita di casa, perché nessuno leggesse sul suo volto i segni del peccato."
Anche la figura del cardinale Fabrizio Ruffo, che comanda l'esercito di re Nasone, a poco a poco giganteggia nel romanzo, affiancandosi a quella leggendaria di Francesco Nigro. Sono i loro movimenti, le loro conquiste di paesi e città, i loro saccheggi per le terre del Basento a riempire di fuochi e ad illuminare quell'epopea di uomini e di avvenimenti, che non manca di destare stupore come fosse ancora presente e viva, grazie ad un uso sapiente di termini dialettali, una pagina di storia lontana come ad esempio questa descrizione: "Nella strada polverosa passò una squadra di mietitori. Scalzi e laceri come sono i braccianti della Puglia. Riposato su un asino li guidava il caporale, si difendeva dal sole con un ombrello e aveva l'orcio fresco nella bisaccia."
4- ALTRE SORPRESE NELLA LETTURA?
BRIGANTE CROCCO
Il libro ci riserva altre sorprese anche con nuovi personaggi come Carlantonio, il figlio di Francesco, vendicativo e spavaldo, finito anche lui nel brigantaggio come il padre. Le bande di briganti, che attraversano le terre del Basento, e ora si schierano coi francesi ora coi borboni, secondo il tornaconto, oppure si scontrano tra loro per rubarsi il bottino di un'imboscata, e, infine, sono combattute sia dai francesi del generale Manhes che dai borboni di Federico Filangieri . Tra Filangieri e Carlantonio vi è una questione privata da regolare,(un altro dei motivi di interesse di questa complessa trama), sono qui veicolo di una esistenza dove legalità ed illegalità diventano parole senza senso e solo viene riconosciuta la forza bestiale della prepotenza e della sopraffazione: "aveva quindi sospeso i prigionieri agli ippocastani per i piedi e li aveva lasciati ad asciugare al sole." Il brigante Taccone, altra figura trista e imponente, presso il quale Carlantonio troverà asilo nella sua fuga, viene accolto nei paesi come un re: "Taccone re di Calabria e Basilicata e generale comandante di una truppa di trecento e passa uomini." Tempi, difficili in cui nessuna pietà, nessuna attenzione per i deboli, i codardi e le donne, le stesse spose dei briganti, da questi profanate e umiliate, subendo spesso in silenzio: "C'è Palomino in giro, con dieci uomini. Attacca le case di campagna, fa razzia di donne e le porta in Puglia, in certi mercati di prostituzione." Anche con costui "il generale" Carlantonio Nigro dovrà saldare un conto. E in questo grande affresco storico fanno capolino come in una parata ben quattro sovrani, da re Nasone a re Bombetta, insieme al sottile filo- anche se nascosto sotto una grande rassegnazione - dello spirito indomito di queste martoriate popolazioni, che ogni tanto riemerge , abituate istintivamente alla rivolta, non importa contro quale padrone: "Tommaso Campanella e La repubblica del Sole qui hanno molti proseliti."Alcuni personaggi, tuttavia, s'incaricano di fare la differenza e di dare una straordinaria levità ad una storia che altrimenti sarebbe - prostrata la povera gente perfino dal colera - solo cinica e beffarda: Pietropaolo ("comandato dall'angelo a seguirvi, tutti di casa, nel bene e nel male"), zio Luigi ("Agitava le braccia nel vento e tracciava dei segni"), Raffaele Arcangelo ("il generale dei poveri"), Maria Fonte di Bene ("figlia del faggio e di una lepre, figlia di un lupo e di una felce?"), che è la moglie di Vitodonato e madre di Bartolomeo, l'ultimo Nigro che appare nel romanzo e che riprende il nome di un antenato vissuto nel 1600, infine, davvero mirabile, un vero tocco di grazia, la presenza, di guida e di conforto, dei morti: "Andiamo, don Francesco, finché brillano i cerogeni - disse don Tommaso. Ma teniamoci vicini. Ho da raccontarvi degli anni che non avete visto."
5- COSA DIRE SULL'AUTORE?
Raffaele Nigro nasce a Melfi il 9 novembre 1947. Giornalista e autore di studi sulla cultura e la letteratura delle regioni meridionali, si impone all’attenzione di critici e lettori con questo romanzo d’esordio "I fuochi del Basento" - 1987, Premio Super Campiello, che diventa rapidamente un 'caso letterario': vite parallele di personaggi quasi plutarchiani! Il brigantaggio meridionale da Mammone e Fra Diavolo a Crocco e Ninco Nanco è il contesto delle vicende narrate, ma l'autore solleva sul piano epico le gesta dei briganti del Sud, evocandone la tipologia, assai ricca, dal verghiano Gramigna allo ioviniano Pietro Veleno protagonista della "Signora Ava".
Così nella letteratura ritorna la storia, una storia meditata, viva e palpitante, sociale... Ne vien fuori la chanson des gestes di una gente diversa, una moltitudine subalterna... insomma il romanzo di Nigro è un grande affresco della società meridionale nelle sue coordinate essenziali: folklorico-popolare, religiosa, intellettuale. Di esse le prime due interagiscono e vivono, nell'opera, in stretta connessione fra loro. Prevale una sorta di arcaismo religioso e il mondo soprannaturale è complementare a quello della storia: entrambi si incontrano tra tradizioni popolari e superstizioni...
Quando Raffaele Nigro dalla Breve iscrizione sulle prime pagine del romanzo “Fuochi del Basento” fa dire a Rocco Scotellaro: "L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini / imparò dal fascino della notte / il chiarore del giorno" – 1- , si pensa che voglia dare una traccia di lettura delle vicende vissute nel suo romanzo da uomini di quattro generazioni.
1. Cfr. R. Nigro, I fuochi del Basento (Milano, Camunia, 1987). Tutte le citazioni sono tratte dalla menzionata edizione. I numeri tra parentesi indicano le pagine.
6- QUALI E QUANTI CONTESTI?
Tracce che scavano nella lunga notte del popolo meridionale, con le sue arretratezze feudali ed ingiuste ed individua la serie di "guerre e di lotte", di speranze e di sogni che porta luce in quel periodo oscuro con il suo fascino. Un popolo che partecipa alla sua storia grande o piccola che sia, tutto avvolto in un’atmosfera di mito in cui figure ed episodi sono simboli di passioni e debolezze, squallore ed indigenza fino alla trasformazione in narrazione epica.Interessante l’affermazione dello studioso meridionalista Giustino Fortunato: "Siamo quel che la razza, il clima, il luogo, la storia [...] hanno voluto che fossimo" -2- per considerare che, se pure l’uomo di Nigro vive in un ambiente, in cui natura e cultura sono legate da reciproci pesanti condizionamenti, riesce egli a non esserne completamente sopraffatto.
2. G. Fortunato, Le cooperative di credito nel Mezzogiorno in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano (Firenze, La Nuova Italia, 1926), p. 56.
G. FORTUNATO
Ho analizzato quanto questo uomo sia improntato dall’habitat e quanto la realtà sociale e storica gli tolga autonomia perché il suo impegno coraggioso possa essere colto nella giusta luce.La conoscenza della realtà- reminiscenza del nostro uomo - egli contadino, bracciante , pastore- porta a considerare la natura selvaggia del sud che rende rudi: implacabile, come "il sole che picchia senza risparmio sulla terra dura e arsa", soffocante, come "l’afa che sfa le carni ed uccide di pula e moscerini" (p.102), infida, come le sabbie mobili e gli acquitrini che si nascondono "tra tofe e felci" o come "i boschi lucani", dove "se ti perdi sei morto".
E questa natura partecipa agli eventi più intimi degli uomini, vive nei loro sogni accompagnandone i pensieri, ricca di presenze, e alla natura stessa si chiede un segno per il futuro, riparo, sostentamento. E' una natura che accompagna al lavoro i braccianti "scalzi e laceri" col sole che batte implacabile sulle schiene", accoglie i pastori nel loro vagare "per sterpaglie e acquitrini, tra luoghi infestati di zanzare, vipere, mosche, tafani" (p. 111), è avara e difficile col contadino, ostile con chi passa, il rapporto con lei diventa "una lotta crudele" e "fierissima", "una lotta di cui l’uno e l’altra portano indelebili tracce dolorose" – 3 - , come suggerisce Fortunato.
3. Ibidem, p. 58.
Questa gente costretta a vivere tra due nemici, la natura arcigna e l’uomo sopraffattore (di qualsiasi genere), sceglie la prima, se la fa amica, la considera protettrice dei suoi diritti.
In sostanza il brigante si abbandona nelle sue braccia "nella macchia del demanio", tra gli acquitrini, "nell’immensità di vigne, boschi incolti, pascoli"; accetta la sua dura legge nelle marce di spostamento, nelle fughe o negli inseguimenti ("tra siepi di sambuco e felci che s’intricavano e diventavano macchione di acacie e querce",p.195) "nella sterpaglia" che "sollevava polvere e accresceva la sete", tra "rovi, finocchi selvatici, ferle"dove le "pietre calcaree bianche come teschi" erano rifugio "di vipere e impastoravacche", p.105; vi depone i suoi segreti e suoi sogni ("voleva governare una corte speciale costruita tra alberi, siepi, uccelli, radure e fiori", p.121); la padroneggia.
.... la dura vita dei brigante tra i monti:
“Sono giorni di fatica e di batticuore quelli del bandito. Quando latrano ì cani pastorini e squilla la tromba della guardia civica bisogna alzare il tacco. Una banda di sette uomini ha turni di guardia molto frequenti e leva il campo di fortuna in un batter d’occhio. Si getta erba bagnata e terriccio sui tizzoni dove si sono arrostite due patate, un passero, se va bene una gallina, e si fugge verso il cuore degli intrichi, tra le canne e gli acquitrini, a cavallo chi ne ha uno, a piedi gli altri, con la tromba, i comandi, le schioppettate nelle orecchie, la morte dietro la nuca. Nelle ore di riposo si disegnano per terra agguati, progetti di rapina, oppure si dorme, portati al sonno dalle cicale e dalla cornacchia, dal ronzio dei tafani che dissanguano le bestie.” (p. 24).
Ma questi monti accolgono anche:
“...assassini. Si muovevano sotto grandi alberi, tra felcioni e valeriane. Intercettati spesso dal regio esercito per valloni scoscesi e strapiombi, vivevano in continuo viaggio a piedi o con muli, si nutrivano di erbe e selvaggina, sempre all’erta… Nella Sila si erano rifugiati ricercati dalle gendarmerie, intellettuali infiammati da utopie, gaglioffi (p. 28).
7- ... IL RUOLO DELLA NATURA?
Natura amica e nemica, soprattutto elemento di questa umanità meridionale e questa simbiosi tra uomo e natura si coglie nel romanzo concretamente, nella figura di Maria Fonte di Bene, la bimba trovata "all’esterno del muro di cinta" della Casa del Preziosissimo Sangue "in un cestone di salici e ginestre", quasi prodotto della terra. Eccola "impastata di legno e fango", e appena ne ha la possibilità comincia a "sgaiattolare da sé e non solo di giorno"; ribelle a tutto ciò che la limita, vive "su di un acacio"fuori la Casa che l’accoglie, unico legame col mondo degli uomini. Come "uno strano uccello", affiorando "dal folto del fogliame", appare a Vitodonato Nigro: "un incrocio tra una ninfa ed un gatto". La ninfa attrae il giovane "tra rovi"e "felci", fugge verso l’Ofanto "nella piana luminosa" e poi ancora nella "macchia", e i due vivono nella natura come l’uomo all’alba della storia, lui fuggendo il tradimento degli uomini, lei apparendo sempre più "figlia del faggio e di una lepre, figlia di un lupo e di una felce"; e, quando dovrà regolare la sua unione col giovane secondo la legge degli uomini, ella ancora fuggire perché sente che non ha tra loro le sue radici: "era l’Ofanto il suo progenitore, l’acqua che scorreva nella macchia di pioppi e di olmi" (p. 230).Il frutto di quell’unione, Bartolomeo Nigro, ricorderà nel nome del nonno – antica stirpe- di questa famiglia di braccianti, in lui vivrà l’eredità del padre, patriota deluso e della madre, figlia dell’Ofanto, anche lui un simbolo.
8- ... E QUELLO DELLA CULTURA?Altro elemento che impronta questa gente, è la cultura, quel nerbo cioè che ne fortifica la vita, sostiene il presente perché possa realizzarsi la promessa del futuro.Nel dipanarsi delle vicende del romanzo ho notato la tensione verso il futuro che qualifica il mondo dell'autore non chiuso in forme arcaiche di comportamento pur se da esse tratteggiato.È il caso della vicenda di Teresa Addolorata cui tutti passionalmente si partecipa come in un dramma greco fino alla catarsi finale cioè il rispetto della legge ("prima l’onore e poi l’amore), frutto di quella tradizione che assicura il futuro. Dopo di che la stirpe può continuare e Vitoantonio, figlio di Carlatonio Nigro che ne aveva ricostituito l’onore, sarà erede legittimo.La stessa tensione verso il futuro si individua nei racconti "delle sere d’estate e d’inverno", nei quali gli anziani consegnano le tradizioni del passato ai giovani; o nel legame dei morti con i vivi, che si realizza nei sogni e si materializza, allorché vi è pericolo o forte tensione emotiva, nelle apparizioni, che Carlantonio giustifica come “ la raggiera incendiata del sole", suggestioni, ma che in sostanza significano il necessario rapporto passato-presente-futuro di cui si è detto.Mi sembra che quei sogni, quelle apparizioni, proprio perché sostengono l’uomo nei momenti difficili segnandone le svolte della vita, proprio perché si muovono nel tracciato della religione della stirpe e nella conferma della tradizione, offrono epicità agli eventi. Né posso affermare in modo azzardato che essi, insieme agli altri episodi, come le stimmate di padre Raffaele Arcangelo, rappresentino il passaggio dalla magia, attraverso il cristianesimo, al "senso delle possibilità dell’uomo"
-4- approdando alla moderna psicologia del profondo. 4 - E. De Martino, Sud e magia (Milano, FeItrinelli, 1983), p. 96.
9- LA MAGIA...?
Credo che non si possa cogliere, nel mondo de I fuochi del Basento, diffuse forme di bassa magia, anzi tutte le espressioni della mentalità pagano-magica, di cui sono eredi più saldi le masse contadine del sud, sono vissute con disincanto, qualcosa con cui bisogna convivere e che comunque si cerca di dominare. Eccone un esempio nell’episodio dei tarantati a cui assiste Carlantonio:
Li accompagnava uno stuolo di contadini e contadine con mandole flauti traccole e tamburi. […] Più che ballare si arrotolavano al ritmo di una pizzica pizzica. […] Aveva fissato le bocche dei malati per scorgere il diavolo che abbandonava i corpi: non lo si vedeva mai. "Bisogna essere diavolo e non farsi domare. Allora spaventi anche il diavolo", stava pensando (p.118).Il ricorso agli scongiuri, ai "mali spiriti" oppure le varie credenze appaiono come il frutto di un’antica saggezza mediante la quale affrontare la vita, e con i proverbi, i detti, le massime di cui è ricca la quotidianità, costituisce il sapere essenziale che fa da guida, spiega, giustifica, educa, e che insieme alle storie di giovani virtuosi e santi, forma la base affettiva e dottrinale dell’educazione dei giovani.Ed accanto alla magia diremmo superficiale, ecco convivere il colorito cristianesimo meridionale delle stimmate di padre Raffaele Arcangelo, venerate come i santuari del Gargano o di Montevergine; ed anche gli esperimenti di padre Paolino Tortorelli, lo scienziato della natura che viene scagionato da un’accusa di stregoneria.Una cultura perciò che non ostacola la speranza.
10- COME ENTRANO LE VICENDE NEL TESSUTO DELLA STORIA?
Terzo elemento da prendere in esame, le vicende che mai sono fuori della storia e agli uomini che le improntano.Il romanzo ha un andamento epico e sono stati chiamati in campo i narratori latino-americani e Garcia Marquez in testa per carratterizzarne la saga di una famiglia sullo sfondo della storia. Ecco Angiolello Del Duca, il giustiziere sociale, gigante buono che difende i deboli come il fiume Ofanto nutre la sua terra arsa; e tutti se ne tramandano le gesta. L' eredità la raccoglie Francesco Nigro e poi, in altro modo, suo figlio Raffaele Arcangelo.Insieme a loro ancora tanti, contadini o no, schierati ora con i giacobini o con i sanfedisti, ora con i liberali o con i borbonici, esprimenti la voce di un popolo che chiede giustizia e si fa giustizia, gente sfruttata e lasciata sola, che affronta l’ urgenza dei bisogni primari manifestandosi indomita e coraggiosa, le cui atrocità innegabili ("la furia dei cafoni è meno controllabile di quella dei liberali", p.171), quando non sono il riflesso della crudezza dell’ambiente o della "vita che avvelena," non si mostrano peggiori di quelle che la guerra giustifica. Non un gregge, dunque, ucciso dall’accidia, uomini, semmai disviati dall’ignoranza che rende "testardi", incapaci di "alzare la testa", divisi ("ci dividiamo, alcuni drizzano la spina dorsale e sono per la repubblica, e altri restano piegati e sono per la schiavitù" [p.79]), costretti ad ammazzarsi "come capretti", ma che portano nella lotta la dignità della fede che chiede rispetto; a cui vengono fatte promesse ("scuole, strade, sicurezza sociale", p.107) sempre tradite, dal cardinale Ruffo e da Murat ("il cardinale [...] promise la terra e poi ce la negò, Re Gioacchino ce la promise e ce la negò ancora", p.189) da re Ferdinando ("Dove stanno le scuole promesse? Le strade, la distribuzione delle terre ai contadini, la bonifica degli acquitrini o delle marrane, l’allentamento dei pesi?"), da Francesco II.
Uomini che sono comunque sempre presenti nelle guerre che attraversano la loro terra ed entrano nei loro campi portando distruzione e morte.Tra questa gente c’è chi ha trovato un modo per lottare contro le prepotenze ("il brigante è come il nibbio e il falchetto, gira largo sulle alture e quando cala c’è una vipera a prendersi il sole", p.99) o per sfuggire a mire che non si comprendono ("meglio un brigante in casa che inutile eroe in contrade straniere, p.148), ma anche c’è chi è spinto solo dal desiderio di ricchezza ("dichiarò apertamente che la sua strada si muoveva non verso la gloria, ma verso il benessere, verso oro e ducati", p.32) e ci sono "braccianti e pescatori braccati dai debiti": un fenomeno prodotto da condizioni storiche ed ambientali che senza dubbio è "un flagello", però accanto alla "sciagura degli invasori" e alla calamità dei signori, "l’ira dei galantuomini è peggio della violenza dei briganti", p.52).E c’è l’erede di Angiolello, Francesco Nigro, il brigante dei contadini, personaggio mitico, modellato sulla epopea del "brigante delle montagne irpine" che i racconti degli anziani facevano emergere "dalle nebbie degli anni" e che la lontananza colorava di magnanimità e grandezza ("pensava che se fosse nato brigante sarebbe stato generoso come Angelo Dei Duca"). E la storia di questo brigante, che "taglieggiava i ricchi e distribuiva ai poveri, fermava carrozze e diligenze con un gesto del braccio o un nitrito del cavallo", (p.6), il giovane Francesco, novello aedo, faceva rivivere nei suoi versi ("Aveva costruito un intero poema su queste battaglie ...", p.71).
Come gli eroi mitici Francesco Nigro è generoso ("era pieno d’amore, una fontana di sentimento", p.5), tenace nella fede ("camminava con gli occhi pieni di speranza [...] per questo camminava molto dentro e fuori la macchia del demanio, dentro e fuori le terre dei Doria e dei Galiani d’estate e d’inverno", p.51), fino a scommettere col destino ("se quassopra [...] nasceranno le ginestre è segno che imparerò a scrivere. Ed era come aver detto ’se voleranno gli asini’", [p.81). E come nel mito quella tenacia è premiata: Francesco Nigro diventa brigante e impara a scrivere.La sua azione è tutta tesa verso un ideale mondo più giusto per la sua gente ("Io non combatto per rubare e per farmi ricco ma per l’emancipazione dei contadini per affrancarli dalla servitù, dalle decime, dai terraggi", p. 61), senza mai perdere, però, il giusto contatto con la realtà ("Ma può bastare un albero [...] per essere liberi? E, poi, liberi, come?. Al generale Nigro sembravano che questi uomini uguali vivessero sulla luna", p.41 - 43) e senza ciechi odi ("Per quanto avesse abbracciato la causa giacobina non riusciva a cacciare dal cuore e dalla mente l’immagine di un re al quale aveva dato le sembianze del padre", p.48). Il comando non lo esalta ("Ordinò che non venissero ulteriormente molestati, che non venissero molestate le donne e che si rispettasse la dignità di ognuno", p,66) e i progetti per il futuro restano semplici e giusti ("una casa grande [...] con tanti bei mobili e vetrate che riempirò di libri, p.63): lo rendono umanissimo.
...E VIA DI SEGUITO...
A fianco dei giacobini del '99 si innalza di tanto sui civili arricchiti e sui nobili che della rivoluzione si servivano per i loro interessi.Quando affronta l’ultima prova sapendo di dover soccombere (l’avo Bartolomeo gli aveva predetto la sconfitta) come Angiolello ("Angiolello ci vuole a battaglia / vuole fuochi di sangue non fuochi di paglia / ci vuole tutti a Potenza / addio, addio poesia e scienza", p.58) e quando incontra per l’ultima volta la moglie e il figlio ("’Sono venuto a stare con voi qualche ora’, ribadì […] strappando dalle braccia della moglie Raffaele Arcangelo",p. 60). Francesco somiglia al mitico difensore di Troia.Mitiche...la cavalcata lungo l’Ofanto ("padroneggiava la bestia con l’abilità del potatore che vola sulle cime degli alberi come un falchetto", p.61), la sosta sulla collina che accoglie i morti della famiglia quasi per ricevere dalla stirpe il suggello alla sua missione, il racconto alla donna delle sue gesta, l'ultima volta con lei (l’eroe resta sempre uomo), infine il bagno nel Basento che richiama quello di Angiolello nell’Ofanto. Così purificato sarà pronto per il sacrificio: la sua morte "in mezzo ad un nugolo di nemici" diventa il simbolo della rivolta contadina contro re e baroni. Ma subito questo simbolo si stempera in un pathos umanissimo, che dà la consapevolezza del prezzo di impegno personale che richiedono le conquiste dell’uomo ("a sue spese imparò quanto costa portare ritta la schiena", p.80).Destinato a continuare la stirpe dei Nigro è Carlantonio, diverso dal padre, lotta sull’altro fronte, dalla parte dei Borboni, evidenziando le divisioni che dilaniavano le plebi contadine. A lui tocca difendere l’onore della famiglia (ed è brigante crudele tra briganti crudeli, conosce fughe e tradimenti) e ricostituirne il nucleo distrutto da epidemie e guerre. Morirà insieme con i briganti del ’61, rispondendo ad un "richiamo ancestrale," contro altre prepotenze.Erede degli ideali di Francesco è, invece, Raffaele Arcangelo, frate carmelitano, segnato dalle stimmate, viene a contatto con la miseria dei diseredati, ma calca altri sentieri per proseguire l’opera del padre, sollevandosi quel tanto sul marciume dei mondo solo per non farsene contagiare; diventa "Generale dei poveri" col suo Ospizio dei Preziosissimo Sangue ("Un regno per i disgraziati [...] a difesa del corpo e dello spirito", 190), è con la gente e tra la gente ("Dobbiamo tamponare il fiume di sangue che scorre per le. strade del regno", p.202) dove non arrivano né leggi, né ospedali, né scuole "per dare una professione ai giovani, per insegnare il leggere e lo scrivere, per educare i figli dei poveri" e i briganti al suo seguito diventano uomini ("Una serpe? S'era fatto uomo",p. 210).Alle vicende di questo popolo partecipa Vitodonato Nigro, uomo di penna, "carbonaro convinto ("Solleveremo tutto il regno contro i borboni e finalmente avremo la libertà", p.212), ma deluso dal re è costretto anche lui alla macchia; partecipa con una banda di briganti, dalla parte di Garibaldi, allo scontro contro i borbonici nella piana di S. Eufemia, convinto per un momento di vedere realizzarsi un "nuovo mondo" ("osservava il generale Garibaldi che si accostava al cavallo del brigante, tendeva la mano per ringraziare dell’aiuto"); ma assiste al tradimento dei piemontesi ed è costretto a calare il capo e "rientrare nel solco" come avevano fatto le precedenti generazioni, mentre suo figlio Bartolomeo parte per l’America, il paese dove "il signor Washington per primo aveva insegnato la libertà ai re".
Particolarel’immagine dell’America che "si era infilata nella mente di Vitodonato e metteva radici con la stessa insistenza con cui aveva messo foglie e frutti l’idea della patria senza borboni" (p.23l), per considerare come le due idee si fondino in una unica grande ricerca di libertà, come per l’emigrante sia quella ricerca operata fuori della patria e come l’idea gli sia stata inculcata da Maria della Fonte, figlia dell’Ofanto, mentre dal fiume gridava la sua ribellione al mondo degli uomini ("mio figlio sarà un navigatore che arriverà fino alla bella isola dell’America",p. 231).Ci sembra di vedere in questa ricerca di libertà che alimenta le vicende del romanzo quella scia che semina bagliori nella notte di cui parlavamo all’inizio.Infine, ecco Bartolomeo Nigro che veleggia per l’America, rappresentante di quelle generazioni, depositario di quella tradizione, segnato da quella natura, per significare il fiume di energie ed ideali che porterà via i govani dalle zone del sud.Contribuirà questa migrazione a cristallizzare in tante zone la realtà descritta da Levi e Scotellaro.