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Per chi del giornalismo ha una certa idea

Creato il 27 luglio 2010 da Simone D'Angelo @SimonDangel
Per chi del giornalismo ha una certa idea

Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D'Angelo

Il 28 gennaio 1994 in un cortile di Mostar, in Bosnia, nella zona musulmana della città, una troupe televisiva della sede RAI di Trieste, che stava realizzando uno speciale per il TG1, veniva colpita da una granata croata. Muoiono il giornalista Marco Luchetta, il tecnico Alessandro Ota e il cameraman Dario D’Angelo. Nemmeno due mesi più tardi, il 20 marzo 1994, l’operatore triestino Miran Hrovatin viene assassinato insieme alla giornalista del TG3 Ilaria Alpi a Mogadiscio.

Per ricordare i quattro nasce a Trieste un comitato spontaneo di parenti, amici e colleghi che, in collaborazione con l’Ospedale infantile Burlo Garofolo, progetta la realizzazione di un centro di prima accoglienza per bambini vittime della guerra in atto nell’ex Jugoslavia e i loro familiari. Entro la fine dell’anno il comitato si organizza nella Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin per i bambini vittime della guerra, riconosciuta come ente morale il 19 settembre 1997.

Nella primavera del 1998 viene inaugurato un primo centro di accoglienza in Via Velussi, a Trieste, in un edificio di proprietà della Provincia, cui segue nel 2005 un secondo centro in Via Rossetti. Tra le centinaia di bambini e genitori provenienti da zone di guerra assistiti dalla fondazione c’è Zlatko Omanovic, il bambino che Luchetta e colleghi stavano filmando nel cortile, salvato dallo schermo costituito dai corpi degli italiani.

“I bambini senza nome”

È l’inverno del 1994 e la terra di Bosnia vive un crescendo di violenza e ferocia. Marco Luchetta è a Mostar per conto della RAI con Alessandro Ota e Dario D’Angelo per girare uno speciale sui “bambini senza nome”, nati da stupri etnici o figli di genitori dispersi nei combattimenti. I tre inviati raggiungono la cittadina due mesi dopo che il vecchio ponte è crollato sotto i colpi dell’artiglieria croato – bosniaca, diventando il simbolo drammatico e terribile della disgregazione politica e sociale della ex Jugoslavia.

Mostar è una città divisa a metà: la parte ovest è croata, la parte est è un ghetto musulmano sconquassato dai bombardamenti e spazzato dai cecchini. Quel 28 gennaio 1994 è la prima volta che una troupe radiotelevisiva raggiunge l’enclave prostrata dall’assedio croato con oltre 50mila persone costrette a sopravvivere in un’area quanto mai ristretta. Luchetta, Ota e D’Angelo scoprono un rifugio dove dormono decine e decine di persone fra cui molti bambini. Una cantina buia, angusta, fredda. Le batterie del faro della telecamera si stanno esaurendo. Chiedono a Zlatko, 4 anni, di uscire nella piazza. Mentre gioca una granata croata scoppia alle spalle dei tre italiani, uccidendoli sul colpo. I loro corpi faranno da scudo al bimbo, salvandogli la vita.

L’inchiesta aperta sull’episodio è stata archiviata. Zlatko, insieme ai genitori, è riuscito a lasciare la Bosnia, raggiungendo la Svezia per cominciare una nuova vita, lontano dagli orrori e dalle atrocità che i suoi occhi di bambino sono stati costretti a guardare. Lo ha potuto fare grazie alla fondazione nata per ricordare il sacrificio di Lucchetta, Ota e D’Angelo e intitolata anche a Miran Hrovatin, assassinato a Mogadiscio insieme a Ilaria Alpi.

Daniela Schifani, moglie di Luchetta, nel 1998 si è recata per la prima volta a Mostar. «Ci fu una scena che mi confortò moltissimo. Il sindaco – raccontò in un’intervista – ci disse: “Voglio che voi sappiate che dal momento in cui loro sono morti hanno smesso di bombardarci, perché l’attenzione del mondo è stata talmente focalizzata su Mostar Est che noi abbiamo smesso di morire”. Questo dà un senso a tutto quanto».

Il premio

Nel 2004, a dieci anni dalla morte dei quattro inviati, la fondazione istituisce, in collaborazione con la RAI, sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica e con il patrocinio del Ministero delle Comunicazioni, il Premio giornalistico internazionale Marco Luchetta.

Un omaggio al modo di svolgere la professione giornalistica e agli ideali che la fondazione e i colleghi RAI ritengono abbiano animato il lavoro dei quattro inviati: la solidarietà tra i popoli, il rispetto delle diversità etniche e politiche, la convivenza pacifica e la soluzione dei conflitti attraverso il dialogo nonché, soprattutto, l’opera di sensibilizzazione in favore dei bambini vittime di ogni forma di violenza.


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