PER COSA VALE LA PENA TENTARE
Per troppo tempo anche nel centrosinistra abbiamo aggredito con timidezza il tema dell’uguaglianza. Di cosa fosse giusto o sbagliato nel governo delle risorse, e questo neanche a tutto vantaggio dell’efficienza. Il punto è riconoscere che il conflitto per una società più giusta non è il virus, ma il vaccino che fa più forte la democrazia. È il rimedio affinché la distanza tra chi ha di più e chi meno non diventi indecente e alla fine ingovernabile. In questione è qui l’eguale libertà politica, e dunque la cittadinanza democratica. Il rischio è l’asservimento, cioè la consunzione della democrazia.
Ecco perché è decisivo dimostrare a cosa diamo valore. Ad esempio, tassare la speculazione meno dell’impresa o del produrre, anche immateriale, comunica alle persone che la speculazione vale più del lavoro. Supplire alla perdita di reddito valorizzando il solo patrimonio, al fondo spiega che possedere vale più del realizzarsi con le proprie capacità. A questo impianto si lega anche la possibilità di promuovere veramente il merito, in ogni ambito, come il lievito di una società che cresce e si rinnova, fuori dalla retorica un po’ frusta che negli anni ha preteso di separare quel concetto dalla promozione delle opportunità che vieta di fare parti uguali tra disuguali. Se queste due strade continueranno a dividersi, l’esito sarà il rafforzamento di vantaggi ingiusti, l’immobilità sociale e l’umiliazione del talento. Senza uguaglianza il merito diventa privilegio.
Noi siamo quelli che si battono perché il destino di ciascuno non sia segnato dal ‘caso’ della nascita. E dirlo ha un valore particolare in un Paese segnato dalla chiusura, opacità e autoconservazione delle sue classi dirigenti in ogni campo: dall’economia al sapere, dall’informazione alla politica, allo Stato.
Solo rompendo come una noce questo involucro di rendite e corporazioni quelle energie potranno esplodere.
Lo scrivo perché sono convinto, al pari di tanti, che il valore delle cose ha sempre una radice negli interessi e nelle coscienze. Radici che risultano più interrate quanto più i valori sono prodotto di una volontà collettiva. In fondo è soprattutto per questo che le convinzioni dovrebbero condizionare lo spazio pubblico anche quando si ragiona di mercato, giustizia, moralità. O quando ci si pone il tema – come oggi – di guidare l’Italia fuori da una crisi radicale dell’economia e della democrazia.
D’altra parte cosa tiene unito un modello produttivo e la coesione sociale?
Per il centrosinistra quel collante dev’essere una fede laica nella persona, una libertà che sia responsabile anche verso il principio della giustizia sociale,
non solo per noi ma per le generazioni che stanno ereditando un’economia senz’ordine e una democrazia vuota di credito.
Una fede laica nella persona vuol dire rifondare il patto democratico sulla promozione dei diritti umani, universali e indivisibili, per una solida cittadinanza facendo di questo, assieme a regole e legalità, la misura della civiltà.
Forse è in questa ispirazione che possiamo ripensare l’etica pubblica e riguadagnare prestigio alla politica. Vuol dire tornare ad avere il mondo nella testa e nell’animo: riscoprire la centralità della pace e la potenza del dialogo senza rimuovere neanche per un istante il dramma di un pianeta insanguinato da guerre, fondamentalismi, stragi di innocenti che solo perché consumate a migliaia di chilometri da noi precipitano in cronaca e di lì nella dimenticanza. Ma una politica che ignora il mondo non ha respiro né cultura né avvenire. E questo vale di più per un’Italia che non può mai dimenticarsi del suo ruolo nel Mediterraneo, proprio quando l’Egitto scosso da una guerra civile ripropone domande decisive sul nostro avvenire comune.
E ancora, diritti umani vuol dire investire sulla promozione della dignità di ognuno, a partire dalle donne. Dire ‘ognuno’ significa vederlo, nominarlo, sempre e ovunque: portatori di diverse abilità, omosessuali, chi soffre nelle carceri o nei ‘centri di reclusione’ dei clandestini, chiunque sia discriminato o perseguitato in ragione della sua condizione. Vuol dire una norma contro l’omofobia per non dover leggere più – mai più – di un quindicenne che se ne va per sempre solo perché lo abbiamo lasciato solo. O una legge tanto attesa sulle unioni civili che ci faccia più moderni di come siamo. E altre riforme possibili, senza costi che non siano la scelta di guardare negli occhi le persone e scoprire quanta forza e bellezza vi siano nelle differenze che attraversano le nostre vite e i nostri giorni.
Non è un elenco di voci, ma un modo di pensare e governare la società. Nulla del resto può compensare il venir meno delle narrazioni sul significato della storia se non la potenza di un nucleo di libertà e doveri fondamentali che percorre il mondo segnando la strada di una pienezza della dignità. E forse nessuno più del cardinale Martini ha avuto la forza di condurre questo pensiero a sintesi: “Chi è orfano della casa dei diritti – diceva – difficilmente sarà figlio della casa dei doveri”.
Sono i termini morali di un ‘nuovo corso’ fondato su quella rivoluzione dell’uguaglianza, promessa mai completamente esaudita nel Novecento, e che dovremmo battezzare oggi “rivoluzione della dignità”.
Entrambe – uguaglianza e dignità – calamite formidabili della passione necessaria a cambiare il corso degli eventi. E tutto ciò – è giusto rimarcarlo – riconoscendo in particolare al pensiero critico delle donne una spinta storica tra le più ambiziose.
Se alla parete fissiamo questa tela, potremo riempirla dei colori più diversi e saranno il riflesso di una lettura del tempo e del benessere degli individui. Insomma delle nostre proposte dobbiamo trasmettere il significato che hanno. Perché è lì la capacità di mobilitare. Quando una soluzione solleva il velo dell’ignoranza, del pregiudizio, e aiuta i singoli a comprendere e apprezzare il mondo che hanno attorno. Ecco perché il poter dirsi italiani dei bambini, figli di immigrati e nati nel nostro Paese, ha un impatto che va oltre la legge. E perché il contributo di milioni di immigrati regolari al nostro Pil va accompagnato all’esercizio dei diritti civili fondamentali cominciando dall’accesso al voto. Lo stesso vale per le norme appena varate dal governo contro il ‘femminicidio’. Non siamo di fronte a un problema italiano, ma a una barbarie globale che non risparmia alcuna latitudine, generazione, religione, status sociale e che dice come il corpo delle donne sia ormai terreno di una guerra di conquista le cui poste si chiamano libertà, progresso, dignità umana.
La forza con cui sapremo combattere questa battaglia dirà molto del valore che siamo disposti a riconoscere davvero alle persone. Perché la politica, in fondo, ha un senso se restituisce a una moltitudine una ragione di riscatto.
Da questo punto di vista c’è stato qualcosa di profondo che la società italiana ha espresso in questi anni. Un patrimonio da cogliere in tutta la sua potenza, a cominciare dalle forme più diffuse dell’impegno volontario e dello spirito solidale di tanti. Molte cose sono accadute e accadono anche grazie a noi. Parliamo di quei sindaci e governatori di regione che sopportano l’impatto peggiore della crisi e devono sentire a pelle il sostegno del loro partito.
Poi ci sono cose che abbiamo faticato a capire. Come i quattro referendum di due anni fa. Per sedici volte era mancato il quorum e quella domenica i sondaggi non scommettevano un centesimo. Invece 27 milioni di italiani sono usciti di casa per votare sull’acqua pubblica, il nucleare, la giustizia. Anche noi eravamo tra quelli, ma il punto è che fino in fondo, prima del risultato, non abbiamo compreso cosa spingeva milioni di persone a credere in una battaglia ignorata dai riflettori.
È accaduto semplicemente perché ci sono beni che il mercato non è in grado di acquistare e quando prova a farlo spezza in modo irreparabile un altro valore non meno radicato nelle coscienze che si misura col civismo.
Non è questa una riflessione che dovremmo fare? Mica per inseguire utopie scomposte che rinnegano il mercato e la ricchezza che porta con sé. Quello è un principio e punto. Ma la bellezza della riflessione è altrove: è nel rapporto tra il mercato e la morale. È nel diritto a essere trattati come persone, sempre.
Al fondo, la radice di disuguaglianze profonde sta nel fatto che a cambiare le nostre società è stata una logica del profitto che ha penetrato sfere della vita dove non era giunta mai e dove non doveva arrivare. La destra molto di questo lo ha teorizzato.
La sinistra, in mezzo a tanti meriti, non ha imposto con la forza necessaria un dibattito pubblico sul fatto che esistono cose che il denaro non può e non deve dominare. Ma una differenza tra destra e sinistra esiste ancora e passa da qui.
Il punto è comprendere, per primi noi, che il discorso su questi temi è la via per portare finalmente al centro i nodi dell’uguaglianza e della trasparenza, riscoprendo la forza della democrazia.
È così. Più i beni preziosi per ciascuno – a cominciare da vita, salute, cultura – sono catturati dalla sola dinamica del guadagno, più crescerà la distanza tra chi a quei beni avrà accesso e chi ne rimarrà privo. La crisi che ha scosso l’Occidente lo ha certificato oltre ogni dubbio. Nel modo in cui il ceto medio è stato immiserito.
Nella morsa del debito che strangola imprese e famiglie. Tra le cause di tutto questo, però, non c’è una politica che si è occupata troppo del rapporto tra le sue decisioni e lo spirito pubblico. Casomai è vero l’opposto: c’è stata una politica che ha pensato di sostituire con toni gridati e una presenza ossessiva sui media la fragilità del suo contenuto morale, della sua rappresentanza sociale, della sua autonomia e laicità. Una laicità che non è laicismo, ma principio della legge eguale e principio dei diritti che devono proteggere chi non ha il potere della maggioranza.
Il punto è che una società senza una trama di convinzioni che la tenga unita non vive. E più la politica rinuncia a questo più le energie morali e civili ne soffrono. In un ambito diverso e da un’altra ‘cattedra’ spirituale, gesti, parole e simboli del nuovo Pontefice – da Lampedusa a Rio – ce lo confermano con una sferzata a coscienze intorpidite e ai poteri consolidati di una “globalizzazione dell’indifferenza”.
Almeno in parte, questo disarmo critico ha schiuso le porte a una presunta superiorità della tecnica descritta come potere neutro. Ma non è così, perché tutti i campi – dalla politica all’economia, alla scienza – sono segnati da concezioni, punti di vista, rapporti di forza. Insomma se i problemi delle persone si riducono al calcolo, più o meno preciso, del loro interesse materiale può capitare che i tecnici abbiano la meglio. Ma a quel punto la politica, per convincersi di avere un’anima, deve porsi la domanda di fondo che è la stessa da prima di noi: “ma quanto deve essere giusta la società che ci candidiamo a rappresentare?”. Ed è cosa diversa dal chiedersi quanto quella società dev’essere efficiente. Perché l’efficienza – che conta come contano le qualità – non riassume interamente il concetto di giustizia.
Tutto ciò significa chiedersi come quella società distribuisce le cose alle quali diamo valore. Insomma, noi pensiamo sia il momento di portare l’Italia dove avrebbe dovuto approdare da tempo, in un’altra fase del suo cammino storico, dove finalmente si dispieghi il ruolo di uno Stato capace di incentivare la società nel modo giusto e non calpestandone risorse e talenti. Dove l’espansione dei diritti individuali
e collettivi venga assunta per ciò che da tempo è in tanti altri paesi più avanzati e dinamici di noi: una leva poderosa della crescita economica e del progresso sociale e civile della comunità. Pensiamo a un’Italia che riscopre il modello di un’economia civile con l’impresa responsabile motore di crescita e incubatrice di capitale sociale e cooperazione. Può diventare un percorso carico di suggestione, perché in grado di superare la frattura tra un individuo ridotto a consumatore e l’autonomia di un cittadino che rimane sempre e prima di tutto una persona. Non stiamo descrivendo un Paese immaginario. I semi di queste tendenze sono diffusi, basta cercarli. Abbiamo giovani, studenti, ricercatori, e tra questi moltissime donne, che non temono confronti, eccellenze nei campi della creatività, della network science, in tanti settori della produzione innovativa. Forze che hanno scoperto il modo di reagire alla crisi creando nuovi lavori e persino stili di vita. Gente ‘speciale’, nel senso letterale del termine, che sta invadendo i campi della rete, che promuove scelte di sostenibilità ambientale e di una diversa responsabilità verso la comunità. Entrare in una fase nuova vuol dire per prima cosa non isolare queste forze, aiutarle a tagliare i loro traguardi e soprattutto farne un sistema ambizioso in cui l’efficienza sia orientata al bene comune, alla ‘felicità’ pubblica. Per riuscire in questo bisognerà fare perno su termini come reciprocità e gratuità, in una logica dove non esista solo il “dare per avere” o il “dare per dovere”. Le nostre società vedono l’emergere di nuovi bisogni quasi ogni giorno. Il vecchio intervento pubblico non può farvi fronte da solo. Non è tanto questione di costi o risorse insufficienti, che pure pesano. È la presa d’atto dell’esistenza di una domanda di beni relazionali come l’amicizia o la fiducia, che per essere ‘consumati’ hanno bisogno di un’azione comune, di un legame sociale e come tali sono l’esito delle relazioni tra i cittadini stessi. È la strada di un nuovo welfare civile capace di salvare l’universalismo senza cedere all’assistenzialismo.
Qui c’è uno spazio enorme per il Terzo settore e per le sue organizzazioni.
Non parliamo di utopie filantropiche, ma di una realtà che in Italia, solo nell’ultimo decennio, ha rappresentato il settore che ha meglio retto l’urto della crisi con oltre un milione di occupati e quasi cinque milioni di volontari. Sono dieci volte gli iscritti al PD!
Legare a tutto questo una riforma radicale e l’ammodernamento dello Stato, della sua capacità di programmare, allocare le risorse, incentivare un’idea di sviluppo, è la chiave per condurci fuori dal buio.
Solo se vediamo questa complessità, assieme a queste risorse, il valore di libertà e giustizia può tornare a cementare la coscienza del Paese. Perché è la premessa che ci consente di dare un senso alla nostra storia. Non quella che abbiamo alle spalle. Quella che abbiamo davanti e che ancora in gran parte è da scrivere.
(Gianni Cuperlo)