ORMAI PER GLI EBREI IL PROBLEMA PALESTINESE NON E’ PIU’ UN PROBLEMA. QUELLO CHE IMPORTA E’ CHE I PALESTINESI SE NE STIANO QUIETI E NON SPARINO PIU’ SULLA GENTE INERME CON LA SPERANZA CHE I MUSULMANI INIZINO A COMPRENDERE CHE
IL PENSIERO PACIFISTA CRISTIANO E’ L’UNICA VIA D’USCITA DA QUALSIASI SPIRALE D’INTOLLERANZA.
Nella contesa elettorale in Israele, il tema Palestina è stato quasi del tutto assente dall’agenda dei partiti.
Si tratta di una vera rimozione collettiva nel dibattito interno alla società israeliana. Percorrendo la West Bank si riesce a comprendere meglio un aspetto sinora poco considerato del conflitto israelo-palestinese, e una ragione di fondo del quel fenomeno di rimozione: il lascito della seconda Intifada (2000-2005).
Si tratta di un’eredità che ha concretamente annullato i pur modesti progressi del faticoso processo di pace sancito con gli accordi di Oslo del 1993.
Un retaggio, insomma, che ha condizionato in negativo quasi ogni aspetto dei rapporti di forza sul campo: siano essi giuridici, militari, diplomatici e, last but not least, umanitari.
La principale evidenza è che la tripartizione prevista dagli accordi di pace (un’area A sotto controllo palestinese, un’area B a controllo misto e un’area C sotto controllo israeliano) ha mosso i primi passi, ma poi è rimasta sulla carta. È finita infatti ostaggio della militarizzazione del conflitto e dell’interpretazione per così dire “totalizzante” da parte d’Israele del tema sicurezza: oggi le truppe dell’IDF possono operare unilateralmente su tutto il territorio della West Bank, quando le esigenze di sicurezza interne al confine
israeliano o quelle dei coloni siano reputate in pericolo effettivo o anche solo potenziale.
Lo strumento principale di questa strategia è la barriera di separazione che, lungi dal servire come confine invalicabile tra due entità territoriali autonome e paritetiche (peraltro il suo perimetro non rispetta la Green Line, cioè il confine del 1967), è divenuto un complesso sistema di difesa/offesa formato da torrette di controllo, check-point, pattugliamenti, posti di blocco volanti.
Si consideri che il muro (a oggi non ancora finito) procede in linea tutt’altro che retta e tra molteplici tornanti supera ormai i 700 km. La pressione che il muro esercita, sia sul piano fisico che psicologico è
enorme, ed è all’origine di una profonda frustrazione nella popolazione palestinese.
Ma anche di un altrettanto crudele dissidio nell’opinione pubblica israeliana: da una parte la barriera è considerata lo strumento che ha impedito nuovi attacchi suicidi a Tel-Aviv e a Gerusalemme; dall’altra è essa stessa strumento di segregazione che chiude Israele, sia il suo corpo principale sia quello degli insediamenti cisgiordani legali e non legali, entro confini di cemento e truppe.
Dal punto di vista giuridico, poiché la costruzione della barriera ha portato alla confisca di terreni e all’abbattimento di abitazioni, molte famiglie palestinesi hanno fatto ricorso presso l’unico tribunale appellabile: l’Alta Corte Israeliana. In genere (fa eccezione il caso di un villaggio alle porte
di Betlemme), le cause provenienti dalla West Bank sono state rigettate in prima istanza o si sono concluse con la sconfitta della parte palestinese (anche l’avvocato difensore appartiene, ovviamente, alla magistratura israeliana). La disillusione palestinese emerge anche sul piano diplomatico.
Quella che per il mondo occidentale e per i quotidiani israeliani è un’inimicizia tra Barack Obama e Bibi Netanyahu da titoli a cinque colonne, per i palestinesi è una querelle senza alcuna ricaduta pratica.
In realtà, la più recente guerra di Gaza nel novembre scorso ha visto l’appoggio americano alle operazioni militari (gli USA hanno contribuito con 250 milioni di dollari al sistema di difesa israeliano Iron Dome) e la relativa copertura diplomatica. Di più, nel maggio scorso il Congresso USA ha stanziato altri 680 milioni
entro il 2015 sempre per il sistema di difesa missilistico che si vanno ad aggiungere al piano decennale già deliberato da 30 miliardi. Ancora: nel recente voto sullo status palestinese come osservatore all’ONU,
gli Stati Uniti hanno votato contro. Nei colloqui tra Mohammed Abbas – il leader dell’ANP – e William Burns e
David Hill – rispettivamente vicesegretario di Stato americano e inviato USA in Medio Oriente – è stata ribadita la totale simmetria americana alle posizioni di Gerusalemme.
È vero che, quando per ritorsione al voto positivo dell’Assemblea ONU (138 paesi favorevoli su 193, 9 contrari, 41 astenuti) Israele ha annunciato la costruzione di 3.000 nuove unità abitative nella West Bank, Hillary Clinton ha immediatamente stigmatizzato l’annuncio, ma quello americano rimane un mero rimprovero che non cambia la sostanza della posizione condivisa da Washington e Gerusalemme: una nazione palestinese potrà nascere solo con un libero accordo tra le parti.
Sul piano interno, unicamente la voce di Ehud Olmert – ex primo ministro israeliano – si era levata per un voto favorevole affinché Israele cogliesse l’occasione per rilanciare il processo di pace, ma il suo isolamento restituisce fedelmente il clima dominante nell’opinione pubblica israeliana: meglio una sicurezza blindata e intransigente nell’immediato piuttosto che un dialogo per un disarmo condiviso domani.
Infine, vi sono due aspetti che nella West Bank sono ormai dati per scontati, ma che difficilmente riescono a farsi percepire pienamente all’esterno: i principi della cosiddetta “normalizzazione” e della “punizione collettiva”.
Il primo attiene alla politica che l’autorità palestinese, in accordo con le forze israeliane, sta adottando per scoraggiare drasticamente l’impegno di organizzazioni non governative e singoli attivisti.
Da un lato l’ANP intende in questa maniera avocare a sé il monopolio della trattativa con la controparte e dall’altro cerca di depotenziare (“normalizzare”, appunto) quelle forze di antagonismo sociale (con entrature
nei media globali) che non piacciono a Israele perché ne danneggiano l’immagine internazionale.
Con “punizione collettiva” invece, ci si riferisce comunemente all’insieme di misure non solo militari, ma anche burocratiche, che Israele adotta nei confronti di tutta la popolazione palestinese, senza distinzione di sesso, età o stato di salute.
Permessi negati a nuclei familiari (o parte di essi) per trasferimenti tra località, incidenti presso i check-point (cinque palestinesi disarmati uccisi nei pressi delle barriere durante la settimana pre-elettorale),
espropriazioni senza margine d’appello legale, sono le esiziali conseguenze civili della seconda Intifada.
La seconda Intifada ha insomma accresciuto le criticità sul campo, creandone anche di nuove.
Così una terza sollevazione – è pensiero ormai diffuso in entrambe le comunità – rischia di essere lo sbocco obbligato.
Mentre sembrano consolidate le posizioni estreme a Gaza e a Gerusalemme, l’ANP continua a chiedere al suo popolo nella West Bank uno sforzo quotidiano di sottomissione che per ora (a parte il voto ONU, certo significativo ma troppo lontano dalla vita della gente) non ha prodotto i risultati sperati.