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Per il 150° anniversario della nascita di Richard Strauss

Creato il 11 giugno 2014 da Gianguido Mussomeli @mozart200657

Centocinquant’ anni fa, a München, nasceva Richard Georg Strauss, figlio di Franz, primo cornista della Hoforchester, e di Josephine Pschorr, la nipote di Joseph Pschorr, il fondatore della celebre Hacker-Pschorr-Brauerei. Come contributo alle celebrazioni per l’ anniversario della nascita di uno degli ultimi grandi compositori tedeschi, propongo come di consueto una serie di materiali critici e ascolti.

Iniziamo con questo eccellente saggio di Glenn Gould, il grandissimo pianista canadese che fu anche scrittore acuto di cose musicali e che qui propone una finissima e articolata analisi dello stile compositivo straussiano.

 

Perorazione per Richard Strauss (1962)

Un mio amico disse una volta che nell’ adolescenza di ogni aspirante musicista c’ è probabilmente un momento in cui Ein Heldenleben appare ad un tratto come l’ opera che forse meglio esprime tutti i dubbi, le ansie e i trionfi sognati dalla giovinezza. Ho il sospetto che il mio amico in parte scherzasse, ma sono anche convinto che in parte avesse ragione; inoltre, anche se dietro a quell’ osservazione non c’era un intento denigratorio, veniva spontaneo concludere che se è naturale sentirsi attratti a una certa età dall’ esuberante estroversione del giovane Richard Strauss, è altrettanto naturale che quest’ ammirazione si spenga con la maturità. La mia passione per Ein Heldenleben, nata per merito di Willem Mengelberg, quando avevo diciassette anni, non è a tutt’ oggi ancora sbollita, malgrado una paziente attesa di dodici anni, e temo che ormai non sbollirà più (che sia una prova della capricciosità del mio processo di maturazione?).

Parlare con oggettività di Richard Strauss, come pure intendo fare qui, mi riesce quindi tutt’ altro che facile, perché parto da un grave preconcetto: sono semplicemente persuaso che Strauss sia stato la più grande personalità musicale del nostro secolo. Oggi questa tesi non è accetta a molti perché il nome di Strauss, pur non avendo certo bisogno di paladini che lo esaltino, ha probabilmente subìto offese più ingiuste di qualunque altro musicista contemporaneo. A prima vista quest’ affermazione può sembrare sorprendente, dal momento che Strauss non è mai stato eseguito con maggior frequenza o devozione di oggi; ma non mi riferisco a quei maghi teutonici della bacchetta che ogni sera si librano a volo sopra le nostre teste per raggiungere Zarathustra sulla sua montagna, né alludo alle smaliziate dive della scena lirica per le quali non esiste cimento più arduo né successo più garantito della parte di Crisotemide o della Marescialla. Mi riferisco invece allo snobismo di coloro che, nell’ambizione di plasmare il gusto musicale, si affrettano a relegare il vecchio Strauss nel cimitero dei romantici, definendolo un grande personaggio dell’ Ottocento che ha avuto l’ardire di sconfinare per cínquant’ anni nel Novecento. La lunghezza della stagione creativa di Strauss è certo sbalorditiva: almeno sessantanove anni, se si dà il giusto valore alle straordinarie creazioni della sua adolescenza, vale a dire un periodo pari alle intere vite di due Mozart (per chi è portato a questo tipo di calcoli). Non che la lunghezza della stagione creativa di Strauss conti molto in sé e per sé, beninteso: parecchi compositori si propongono di campare fino a centosei anni, mentre lo intendo rifugiarmi in una dignitosa senilità autunnale a trenta. La durata di una stagione creativa è però un criterio di giudizio valido se e in quanto la si rapporti, per giudicarlo e per esserne giudicata, allo sviluppo del compositore come persona. Stando a chi detta legge nel campo del gusto musicale, l’ evoluzione artistica di Strauss non si sarebbe prolungata per tutto l’ arco della sua vita ma si sarebbe arrestata al primo decennio di questo secolo. Questi critici non negano sempre ogni valore alle sue composizioni giovanili; alcuni sono persino in grado di fischiettare qualche tema dei suoi poemi sinfonici e molti riconoscono le qualità drammatiche dei suoi primi grandi successi operistici, la grazia e l’audacia del Rosenkavalier, il clima angoscioso di Elektra. Ma quasi tutti sembrano convinti che Strauss, dopo essersi presentato per un quarto di secolo come un capofila dell’avanguardia, sia stato colpito verso i quarantacinque anni da un isterilimento della vena creativa che sarebbe durato fino alla sua morte. Sarà stato un capriccio del destino, mi chiedo, a far sì che il momento nel quale viene posto (con l’ accuratezza del senno di poi) il suo abbandono della retta via corrisponda quasi esattamente all’inizio della più significativa rivoluzione (o riforma, se preferite) della musica contemporanea, vale a dire alla nascita del linguaggio atonale? O è pura coincidenza il fatto che anche i più avvertiti collochino l’apice della sua carriera proprio quando altri compositori stavano per infrangere il muro del suono dell’armoma tonale, e che, quando egli espresse il suo rifiuto della nuova estetica, gli arbitri del gusto e i battistrada della moda vedessero in lui solo un uomo che cercava nostalgicamente di ripetere i successi della sua giovinezza?

La generazione, o meglio le generazioni sorte dopo i primi anni del nostro secolo hanno identificato il più grave errore di Strauss nella sua mancata partecipazione attiva alle innovazioni tecniche del suo tempo. Secondo loro Strauss, dopo essersi creato un linguaggio inconfondibile e averlo usato inizialmente con tutta l’esultanza delle grandi avventure, sembrò fermarsi sulla via del progresso tecnico, limitandosi a ripetere con monotonia quello che aveva detto con tanto maggior vigore e chiarezza nel pieno rigoglio della sua gioventù. Per questi critici è inconcepibile che un uomo così geniale non abbia desiderato contribuire all’arricchimento del linguaggio musicale, che un autore cui la sorte aveva concesso di scrivere dei capolavori ai tempi di Brahms e Bruckner e di sopravvivere a Webern fino a vedere l’epoca di Boulez e Stockhausen, non abbia voluto trovarsi un posto tutto suo nella grande vicenda dell’evoluzione musicale. Che cosa si deve fare per spiegare a costoro che l’arte non è tecnologia e che la differenza fra un Richard Strauss e un Karlheinz Stockhausen non è paragonabile a quella fra un’umile addizionatrice da ufficio e un elaboratore IBM?

Mi sembra quindi che Richard Strauss non sia soltanto il più grande musicista contemporaneo, ma anche un personaggio essenziale per quanto riguarda il maggior problema di moralità estetica dei nostri giorni: la tragica confusione cui dà origine ogni tentativo di contenere le insondabili urgenze di un destino artistico individuale entro l’ordinata summa storica della cronologia collettiva. Strauss è molto più dì un comodo punto focale del pensìero conservatore: la sua è una di quelle personalità rare ed intense la cui esistenza è una sfida all’intero processo dell’ evoluzione storica. Durante quei sette decenni di attività, la caratteristica più spiccata della produzione di Strauss fu sempre la straordinaria coerenza del suo vocabolario. Volendo prendere in esame due casi estremi, si possono confrontare la Sinfonia op. 12, scritta a diciott’anni, e le Metamorphosen per orchestra d’archi, composte a ottantuno; si dovrà riconoscere che nessuna delle due opere contiene procedimenti armonici che non fossero usabili anche nell’altra. Entrambe si servono sostanzialmente di un linguaggio armonico già noto a Brahms, a Hugo Wolf o (sequenze a parte) a Bruckner, ed entrambe presentano una scrittura contrappuntistica che, seppure in modo più evidente nella seconda composizione, ha comunque alla sua radice il convincimento che suo dovere fondamentale sia, pur con gli inevitabili attriti, di sostenere il moto armonico, e non di contrastarlo. Ma nonostante tutte queste analogie, le Metamorphosen evocano uno spazio armonico e contrappuntistico completamente diverso da quello della Sinfonia; entrambe recano inoltre l’ improntà di una personalità che non può in alcun modo essere confusa con quella di un maestro del passato. Mentre le opere dell’adolescenza di Strauss, come il Primo concerto per corno, comprendono pagine che da un punto di vista strettamente armonico non apparirebbero fuori luogo in una composizione di Mendelssohn o addirittura di Weber, qui bastano pochi secondi per capire che la tecnica, malgrado l’influsso dei maestri del primo romanticismo, è del tutto originale.

Pur essendo giunto all’ adolescenza quando Wagner aveva ormai precorso la disgregazione del linguaggio tonale e spinto le possibilità della psicologia armonica a estremi da alcuni considerati il lìmìte stesso dell’umanamente sostenibile, Strauss era, di tutti i composìtori della sua generazione, forse quello che più si preoccupava di sfruttare tutte le ricchezze della tonalità tardoromantica entro i confini della più rigorosa disciplina formale. Per lui non si trattava unicamente di controbilanciare le sovrabbondanti ambiguità armoniche della sua epoca (cui il giovane Arnold Schoenberg reagiva con un’intensa concentrazione tematica); ciò che gli premeva maggiormente era il mantenimento della funzione globale della tonalità, non solo nelle linee essenziali di una composizione ma anche nei suoi più minuti particolari. Basta quindi confrontare una qualsiasi partitura orchestrale della sua giovinezza con un poema sinfonico di Liszt, ad esempio, per notare subito che le composizioni di Strauss, pur apparendo infinitamente più audaci e più traboccanti di fantasia sul piano armonico, sono scrupolosamente esplicite ad ogni livello del loro disegno architettonico e danno perciò un’impressìone di maggiore varietà e insieme di maggiore chiarezza del linguaggio armonico.

Abbinando queste immense risorse armoniche a un senso quasi rococò della linea e dell’ abbellimento, Strauss riesce a produrre effetti di straordinaria suggestione con mezzi semplicissimì e ingannevolmente familiari. Chi, all’ infuori di lui, sa dare a un tranquillo e convenzionale passaggio di quarta e sesta un sapore di godibilissima bizzarria?
Nella produzione del romanticismo tedesco è raro incontrare una scrittura musicale che regga il confronto con la splendida infallibilità armonica del giovane Strauss. Fra i suoi predecessori, soltanto il Mendelssohn e il Brahms delle pagine migliori compresero con altrettanta chiarezza la necessità di consolidare le mutevoli strutture della tonalità romantica con il sistematico orientamento dell’armonizzazione del basso. Si potrebbe quasi sospettare che Strauss nel comporre le parti dei violoncelli e dei contrabbassi pensasse a una pedaliera (come farebbe un organista), perché in qualsiasi momento, indipendentemente dall’ampiezza della partitura, dalle sue complessità ritmiche e dai caleidoscopici riflessi della tonalità cromatica, la linea del basso è un elemento equilibratore non meno saldo e infallibile che nelle opere di Bach o di Palestrina.

Non si deve tuttavia pensare che questa ricerca di un’ assoluta chiarezza lineare facesse di Strauss un contrappuntista puro, intento a tessere una trama in cui ogni voce abbia un andamento indipendente. Per lui il contrappunto non fu mai fine a se stesso: nella sua produzione le forme contrappuntistiche assolute, come la fuga e il canone, compaiono soprattutto nelle opere liriche, ma solo di rado e quasi sempre come ammiccante sottolineatura del libretto. Dal punto di vista strettamente accademico tali episodi sono impeccabili, ma è un po’ come se Strauss dicesse: «Vedete che lo so fare anch’io?» e come se per lui quegli incisi servissero soltanto a ravvivare una situazione scenica troppo statica. Ma, sebbene la sua amplissima produzione comprenda pochi esempi di quegli accorgimenti contrappuntistici cui quasi tutti gli altri musicisti del Novecento ricorrono regolarmente per creare interrelazioni tematiche, non è esagerato dire che Strauss fu, a modo suo, uno dei compositori più inclini al ragionamento contrappuntistico.

La forza essenziale del suo contrappunto non sta nella sua capacità di dare a ogni voce un’esistenza autonoma nell’àmbito di una struttura simmetrica; Strauss aveva una vocazione sinfonica troppo intimamente ottocentesca per giungere a un simile risultato o anche, a mio parere, per desiderarlo. Essa risiede invece nella sua capacità di creare una sorta di relazione poetica fra le agili e svettanti melodie dei soprani, i bassi saldi, misurati e sempre orientati in senso cadenzante e, importantissima, la splendida trama filigranata delle voci interne. Nelle strutture lineari di Strauss le tensioni contraddittorie sono molto più frequenti che in Wagner, ad esempio, in cui gli accumuli di densità presentano forse una maggior determinazione e un maggiore equilibrio fra dinamismo e allentamento rispetto a quelli di Strauss; ma è proprio l’unione di questa scrittura contrappuntistica finemente cesellata e delle vaste complessità di questo linguaggio armonico a far sì che in Strauss gli episodi culminanti, i momenti di tensione e di calma siano, anche se meno travolgenti che in Wagner, infinitamente più rivelatori delle complesse realtà dell’ arte.

Quando cominciò a subire l’influenza di Wagner, Strauss dovette anche affrontare il problema di trasferire nel campo della musica sinfonica le potenzialità drammatiche della libertà armonica wagneriana; e ciò non soltanto perché esordì come sinfonista (adottando per giunta, almeno agli inizi, uno stile sinfonico assai rigoroso), ma anche perché, pur con tutta la sua assoluta padronanza del linguaggio scenico, egli mantenne sempre una forma mentis prevalentemente sinfonica. Per tutti i compositori della sua generazione il problema principale fu naturalmente quello di elaborare un’architettura musicale che fosse conciliabile col fasto di una tonalità sontuosamente cromatica e potesse sfruttarne tutte le ambiguità. Se si voleva usare un materiale scelto più per le sue potenzialità genetiche che per il suo profilo tematico, non era certo pensabile di servirsi per le proprie creazioni sinfoniche dello stampo della struttura sonatistica classica, con tutto il corredo di piattaforme tonali richiesto dalla tradizione. (Il problema fu comunque meno grave per Strauss che per Schoenberg, il quale dà prova di essere sempre stato più fermamente deciso a sfruttare fino in fondo ogni possibile permutazione tematica).

Il giovane Strauss cercò una soluzione nel poema sinfonico, in cui la logica dei contorni musicali sarebbe stata presumibllmente in rapporto con una già nota esposizione dell’intreccio che avrebbe indicato la trama, la durata e le piattaforme tonali di ogni episodio. Nel migliore dei casi si trattava di una soluzione di compromesso, dal momento che gran parte degli ascoltatori ha quasi certamente un’idea assai vaga delle disavventure giudiziarie di Till Eulenspiegel o delle teorie filosofiche di Zarathustra, cose per cui del resto non prova soverchio interesse, mentre è probabile che riconosca o tenti di riconoscere le affinità cori le strutture puramente sinfoniche che Strauss si sforzava di eliminare. Più importante, nella logica del poema sinfonico, è il fatto che secondo Strauss essa dava all’opera una coerenza strutturale che non doveva necessariamente essere visibile dall’esterno. Era quindi sempre presente una logica tutta musicale, mentre la logica pseudodrammatica serviva unicamente da sostegno all’ atto del concepimento e poi, dopo aver adempiuto al proprio compito, poteva essere tranquillamente abbandonata al momento della nascita. Ma è sempre assai rischioso intrecciare eventi musicali ed eventi drammatici, e sebbene Strauss fosse molto orgoglioso di saper descrivere col linguaggio della musica situazioni non musicali (talento che avrebbe poi fatto di lui il massimo operista della sua epoca), l’ essenza strutturale del poema sinfonico non consisteva nell’ evocazione di una serie di eventi drammatici mediante un’ efficace parafrasi; essa risiede invece nella possibilità di usare l’ armonia degli eventi drammatici come punto focale di una forma musicale. (Ed è straordinario che Thomas Mann parlasse sempre del procedimento inverso, della possibilità di costruire un romanzo breve in forma di sonata).

Col passare degli anni, diminuì in Strauss il desiderio di avvincere l’ ascoltatore con l’ equivalente musicale di un’ intricata trama romanzesca; una volta concluso il periodo dei poemi sinfonici, cominciò per lui quello che fu dapprima un timido idillio con lo style galant e poi un ritorno sempre più appassionato a quel clima di rinascita e rivalsa del linguaggio tonale che aveva dominato le generazioni preclassiche. Ho sempre pensato che il momento cruciale della carriera di Strauss coincida con uno dei suoi lavori meno spettacolari e meno noti, almeno nell’ America del Nord: Ariadne auf Naxos. Pur non essendo né la più brillante, né la più suggestiva, né la più gradevole fra le opere liriche di Strauss, l’ Ariadne è quella in cui compaiono per la prima volta le caratteristiche che possiamo ora annoverare fra le più tipiche della maturità del maestro. (È forse curioso rilevare che questo giudizio, opinabile quanto si vuole, riguardi una composizione scritta nel 1912, lo stesso anno del Sacre du printemps di Strawinsky e del Pierrot lunaire di Schoenberg). L’ Ariadne conferma in modo definitivo un sospetto che doveva correre già da un pezzo sul conto di Strauss, e cioè che egli fosse nel suo intimo, se non un neoclassico, certamente un romantico con spiccate tendenze razionalistiche.

Dall’ Ariadne in poi le sue trame musicali diventeranno sempre più trasparenti, mentre il vigore e la saldezza del suo linguaggio armonico saranno ancora più ammirevoli. Strauss amò sempre considerarsi una specie di Mozart del Novecento, e questa sua ambizione non appare del tutto infondata: molte opere della sua maturità e della sua vecchiaia, dall’ Ariadne a Die schweigsame Frau, sono effettivamente contraddistinte da quell’ incantevole limpidezza che ne fa a mio parere le più valide espressioni dell’istinto neoclassico. Così la preoccupazione straussiana di conservare intatta la funzione tonale trova ancora una volta non solo un rifugio ma un punto di partenza. Non voglio insinuare che Strauss non ebbe mai a patire di quel terribile evaporare dell’ ispirazione che tormenta l’ inconscio di ogni artista. Ho sempre considerato tutto sommato giustificate le preoccupazioni espresse sul suo futuro artistico subito dopo la prima guerra mondiale; il decennio successivo fu certamente il meno fecondo della sua vita, e la sua produzione di quel periodo, pur essendo come sempre di altissimo livello tecnico, non è nemmeno lontanamente paragonabile alle conquiste degli anni precedenti. Strauss, naturalmente, usando del privilegio, comune ai compositori e ai genitori, di eleggere a proprio favorito il figlio non desiderato, giurò fino alla morte che il suo capolavoro lirico era Die Frau ohne Schatten, chiedendo con insistenza ai maggiori teatri di metterla in cartellone. Giunse perfino a dichiarare che la sua salute non gli consentiva di dirigere il Rosenkavalier, perché troppo lungo, ma che sarebbe stato felicissimo di dirigere Die Frau ohne Schatten (che è leggermente più lunga). Le opere della sua maturità, come quest’ ultima, non sono certo prive di pregi, ma mancano ai nostri occhi di quella miracolosa inevitabilità che nelle opere giovanili (e anche in quelle degli ultimi anni) legava la prima nota all’ ultima e faceva sì che ognuno degli ingegnosi procedimenti tecnici adottati fosse non un fine ma soltanto, e a ragione, un mezzo.

Giungiamo così all’ incredibile seconda giovinezza artistica di Strauss, vale a dire alla scorrevolezza, al calore, all’ infinita suggestione dei suoi ultimi lavori. Questa rinascita della sua ispirazione creativa è certamente uno dei maggiori prodigi di cui abbiamo potuto essere testimoni. Si potrebbe forse arrischiare un paragone con le ultime opere di Beethoven, ricordando che anche queste furono precedute da un arido deserto d’ inazione dal quale Beethoven emerse per ritrovare non soltanto il passo sicuro della sua giovinezza ma anche un linguaggio con cui esprimere la profondità di pensiero della sua maturità. Credo che anche nelle ultime opere di Strauss si possa ammirare l’ unione di un pensiero filosofico con la tecnica consumata che ne è l’ indispensabile completamento. In quasi tutte queste opere la tendenza giovanile di Strauss a celebrare attraverso le tecniche dell’ arte la vittoria dell’ uomo sulla materia, ad esaltare il personaggio esistenziale che non esita a scagliarsi contro il mondo intero, ad essere, in altre parole, l’ eroe di Ein Heldenleben, mi sembra trascesa, anzi domata, da una maestria tecnica che non ha più bisogno di dimostrare la propria eccellenza o di sfoggiare la propria maturità, ma che è ormai inscindibile da quella rassegnazione suprema che è l’ estrema conquista della saggezza e della vecchiaia.

A parte gli ultimi quartetti di Beethoven, non mi vengono in mente musiche che evochino la luce trasfigurante della suprema serenità filosofica con maggior perfezione delle Metamorphosen o del Capriccio, scritti entrambi quando il maestro aveva superato i settantacinque anni. Anche queste opere della vecchiaia sono ricche della straordinaria fantasia armonica che fu sempre tipica di Strauss; ma mentre in passato essa poggiava sulla base concreta, solida e sicura della semplicità metrica, ora appare a tratti incerta, a tratti ribelle, a tratti volutamente asimmetrica, rispecchiando con efficacia lo stato d’ animo di chi ha conosciuto gravi dubbi ed è pervenuto a una certezza, di chi ha messo in discussione la stessa attività creativa e ne ha riconosciuto la validità, di chi ha esplorato i molteplici aspetti della verità.

Mi domando tuttavia se il confronto con Beethoven sia davvero illuminante. In realtà gli ultimi quartetti beethoveniani scavalcano virtualmente l’ intero periodo romantico per diventare l’ anello di congiunzione con le tensioni e le complessità tematiche della generazione di Schoenberg; l’ ultimo Strauss, invece, almeno se considerato secondo le prospettive di oggi, non sembra certo suggerire alcun superamento stilistico delle generazioni successive. Se il mio giudizio è esatto, egli ha semplicemente dato una conclusione logica e vibrante alla propria esistenza creativa, senza indicare nuove mete per l’ avvenire. E questo è, a mio parere, il motivo per cui è stato così sottovalutato dalla mia generazione.
Nemmeno la mia grande ammirazione per Richard Strauss mi indurrà mai a sostenere che le sue opere eserciteranno un’influenza determinante sulla musica del futuro. Ma in che cosa consiste realmente l’ influenza di una generazione su un’altra? Nella semplice conservazione di analogie stilistiche entro un panorama storico in continua trasformazione? Ma non potrebbe anche consistere nell’ esemplarità di una vita in cui si è compiutamente realizzato un disegno artistico? Certo Richard Strauss ha ben poco da spartire col ventesimo secolo, così come lo conosciamo noi: egli non appartiene all’età dell’ atomo più di quanto Bach non appartenga all’epoca dei lumi o Gesualdo all’ epoca d’oro del Rinascimento.

Qualunque criterio estetico e filosofico si scelga, Strauss non è stato un uomo del nostro tempo. E davvero concepibile che Die Frau ohne Schatten sia andata in scena per la prima volta negli Anni Venti, l’ epoca tumultuosa dell’infiazione e del ragtime? [In realtà Die Frau fu composta nel secondo decennio del secolo e rappresentata per la prima volta nel 1919]. È possibile che Capriccio, crepuscolare omaggio a un calmo mondo di cortesia, eleganza e cultura sia nato nel 1941, quando il nostro mondo era in preda alla furia della guerra?
Ciò che è soprattutto esemplare nella musica di Strauss è il fatto che essa rappresenti concretamente la trascendenza di ogni dogmatismo artistico, di ogni problema di gusto, di stile e di linguaggio, di ogni frivolo e sterile cavillo cronologico. È l’ opera di un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene, e che parla per ogpi generazione perché non s’identifica con nessuna. E una suprema dichiarazione di individualità: la dimostrazione che l’uomo può creare una propria sintesi del tempo senza essere vincolato dai modelli che il tempo gli impone.

(Tratto da: Glenn Gould, L’ ala del turbine intelligente, ed. ital. Biblioteca Adelphi.
A cura di Tim Page
Traduzione di Anna Bassan Levi
Prima edizione 1988
pp. 157-169)

 

Come primo ascolto, ho scelto questo video del 1971 nel quale Karl Böhm (1894 – 1981) che fu grande amico e stretto collaboratore di Richard Strauss, prova e dirige con i Wiener Philharmoniker uno dei primi capolavori del compositore bavarese, il poema sinfonico Don Juan. Da ascoltare attentamente e da meditare sono le indicazioni del grande direttore austriaco durante la prova, oltre che il bellissimo esito dell’ esecuzione concertistica.

 

 

Di seguito, un’ analisi delle composizione a cura del compianto Sergio Sablich, come sempre puntuale e dettagliato nelle sue osservazioni.

 

Con il folgorante Don Juan(Don Giovanni), composto tra il 1887 e il 1888 da un musicista appena ventiquattrenne, ed eseguito per la prima volta sotto la sua stessa direzione al Teatro di corte di Weimar l’ 11 novembre 1889, si avviava la serie dei sette poemi sinfonici (o, come il compositore stesso preferiva, Poemi sonori, Tondichtungen) che per circa dieci anni avrebbero assorbito quasi tutte le sue energie creative, insieme con la stesura originaria della prima opera teatrale, Guntram: dopo Don Giovanni sarebbero venuti Morte e trasfigurazione (1888-89), Macbeth (1890, ma già realizzato in una prima versione nell’86), Till Eulenspiegel (1895), Cosi parlò Zarathustra (1896), Don Chisciotte (1897), Una vita d’eroe (1898). Quindi, dopo un certo rallentamento dell’ attività compositiva coincidente con gli impegni direttoriali a Berlino, e colmato quasi esclusivamente da una notevole produzione liederistica, si sarebbe aperta l’ epoca delle grandi opere teatrali: le recidive sinfoniche sarebbero state scarse, e non sempre tali da ritrovare la felicità dei capolavori della gioventù.

Il ciclo dei grandi poemi sinfonici di Richard Strauss, dunque, si offre all’ attenzione come un’ esperienza profondamente unitaria e ben definita anche cronologicamente. Basta un’occhiata ai titoli di questi lavori per cogliere immediatamente la convinzione estetica che vi è sottesa: ossia quella che l’ atto compositivo sia anzitutto fatto poetico, poesia per sonos anziché per verba. In una lettera al direttore d’ orchestra Hans von Bülow, giusto nell’ agosto 1888, Strauss scriveva:

Se si vuol creare un’ opera artistica unitaria per sfondo e costruzione complessiva, e se si vuole che essa agisca in senso plastico sull’ ascoltatore, bisogna che ciò che l’ autore intende dire appaia anche plasticamente agli occhi del suo spirito. Ciò è possibile quando esista lo stimolo di un’ idea poetica, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno aggiunta all’ opera come programma.

Poco più tardi, nel gennaio ’89: «La nostra arte è espressione, e un’opera musicale che sia priva di un vero contenuto poetico da esprimere (un contenuto, naturalmente, tale da non potersi in realtà rappresentare altro che con i suoni, ma che possa essere suggerito con le parole; solo suggerito, però) a mio parere è tutto, fuorché musica». Concetti abbastanza chiari: l’ idea poetica è assunta come ‘stimolo’, il programma è qualcosa che le parole possono suggerire (e soltanto suggerire).

Nel pieno di un vigoroso fervore compositivo, naturalmente orientato verso l’ orchestra da molteplici esperienze professionali, Strauss scrisse la sua prima grande partitura sinfonica scegliendo un tema che come pochi altri era suscettibile di accogliere ed esprimere le istanze di un esuberante vitalismo: l’ eros, l’ istinto elementare del possesso e della sopravvivenza incarnato nel mito eterno di Don Giovanni. La fonte fu trovata nel poema Don Juan di Nikolaus Lenau (1802-50): a meglio chiarire il proprio intendimento, il musicista ne riportò sulla partitura tre citazioni, relative la prima all’ inesausta ansia di piacere del protagonista, la seconda al desiderio sempre nuovo e sempre diverso di fronte a ogni donna, la terza alla ‘calma dopo la tempesta’, quando ogni desiderio prende apparenza di morte. Tutto ciò trovò traduzione sonora in un impianto formale libero, vagamente ricollegabile alla sonata e al rondò, percorso da un’ invenzione tematica straordinariamente fertile, unita alle arditezze di un’ armonia post-wagneriana e affidata a un ordito strumentale smagliante. Motivi, armonia, timbro, ogni parametro della costruzione assume un immediato valore gestuale (giusta quell’ esigenza di evidenza ‘plastica’ di cui parlava Strauss): dal primo tema, figura musicale del protagonista che apre Don Juan con slancio irresistibile, a tutti i motivi secondari che via via si succedono a disegnare i diversi aspetti dell’ ideale femminile, a quello, veramente memorabile, che i corni, introducendo l’ episodio conclusivo del poema, stagliano contro il teso tremolo degli archi. Le rutilanti prospettive sonore e le intuizioni fantastiche della composizione richiedono a orchestra e direttore impavido virtuosismo; né questo è l’ ultimo dei motivi della sua perenne presa sul pubblico. Proprio per il suo essere la prima grande pagina di una grande esperienza Don Juan sembra, rispetto alle successive prove di Strauss, proporsi come un’ ideale epigrafe ribadita dalle parole di Lenau: «Avanti, dunque, verso nuovi trionfi, finché nei polsi robusti batta gioventú».

(Da un programma di sala del Festival Verdi 2004)

 

Come secondo ascolto, propongo Ein Heldenleben, in una stupenda esecuzione di Giuseppe Sinopoli con la Filarmonica della Scala, ripresa il 27 maggio 1991

 

 

Ed ora, un esempio dello Strauss operista. Questo è l’ intenso e struggente finale del primo atto del Rosenkavalier, interpretato in maniera superba da Maria Reining, meravigliosa Maschallin, e dalla grande Sena Jurinac nel ruolo di Oktavian. Sul podio dei Wiener Philharmoniker, per questa registrazione del 1954, Erich Kleiber firma una delle sue ultime e più grandi interpretazioni.

 

 

In questo omaggio a Richard Strauss non potevo fare a meno di includere uno dei suoi lavori che amo di più: le Metamorphosen, studio per 23 archi solisti dedicado a Paul Sacher. Composto tra l’ agosto del 1944 e il marzo 1945, è uno dei capolavori assoluti dell’ ultima stagione creativa del musicista,  vero e proprio epicedio suglla tragedia della guerra e su un’ epoca irrimediabilmente perduta. Uno dei primissimi direttori a inciderne un disco fu Herbert von Karajan, nel 1947 con gli archi dei Wiener Philharmoniker, esecuzione che qui di seguito ascoltiamo. Così il direttore salisburghese rievocava, quarant’ anni dopo, il suo primo inconctro con la partitura di Strauss:

Ho amato le Metamorphosen dal momento stesso che ne venne pubblicata la partitura. Amo tutto di esse, fino all’ ultima pagina dove Strauss scrisse IN MEMORIAM! e sentiamo il tema dell’ Eroica per l’ ultima volta. Sa, solo quando giunse a questa pagina conclusiva egli si accorse da dove proveniva il tema, assorbito com’ era dal processo compositivo. È un’ opera commissionatagli da Paul Sacher. Ma quando l’ ha eseguita ho giudicato che in alcuni punti culminanti i ventitrè archi originali fossero troppo pochi per produrre l’ effetto dovuto. Così, in occasione dell’ incisione di Vienna, ho incaricato un comune amico di chiedere a Strauss se potevo usare una massa d’ archi più piena nei momenti di maggiore intensità. Lui rispose al mio amico: “Se riesce a farsi dare gli archi, lasciatelo fare”.

(cit. Richard Orsborne, Conversazioni con Herbert von Karajan, trad. italiana di Oddo Piero Bertini, ed. Guanda, 1990, pp. 138-139)

 

 

 

Concludiamo questo post celebrativo con un raro video nel quale vediamo Richard Strauss che dirige il suo Till Eulenspiegel, nel 1944 con i Wiener Philharmoniker

 

 

E con questa riflessione del 1928, pubblicata in italiano nella raccolta di scritti straussiani Note di passaggio, a cura di Sergio Sablich

Non è affatto vero che si possa comporre ‘tutto’, se per ‘comporre’ si intende tradurre ed esprimere un’ idea o un sentimento nel linguaggio simbolico della musica. È ben vero, naturalmente, che con note e suoni si può dipingere (soprattutto certi motivi che descrivono il movimento); ma si corre sempre il rischio di aspettarsi troppo dalla musica e di cadere in una vuota imitazione della natura. Quali che siano lo spirito e l’ abilità tecnica con cui questa musica viene scritta, rimarrà sempre musica di second’ordine.
È mia convinzione che in avvenire la sola scelta determinante ai fini dell’efficacia drammatica sarà quella di un organico orchestrale ridotto, che non soffochi la voce come quelli di grandi dimensioni. Molti giovani compositori se ne sono già resi conto, almeno in parte: l’orchestra dell’opera dell’avvenire è l’orchestra da camera. Con il suo commento chiaro e cristallino di tutti gli avvenimenti scenici, è l’unica capace di esprimere con la massima evidenza le intenzioni del compositore rispettando le voci. In fondo il punto principale, direi essenziale, è che il pubblico non ascolti solo la musica, ma possa seguire esattamente anche il testo.

Quanto al mio modo di dirigere, neppure su questo punto erano tutti d’accordo: giacché, soprattutto in passato, si trovava da ridire sulla mia idea dei tempi in Beethoven. Ma mi domando: chi può affermare oggi con assoluta certezza che Beethoven abbia voluto questo o quel tempo così e non in un altro modo (per esempio come lo concepisco io)? Esiste una tradizione consolidata in questo campo? Non esiste, appunto; e perciò sostengo che solo la sensibilità artistica del direttore d’ orchestra debba decidere quel che è giusto o sbagliato. Nel corso di tanti anni ho fatto lievitare nel mio intimo ogni opera di Beethoven, di Wagner e di altri; e, come le sento, così le riproduco, convinto unicamente di ciò che per me è vero e giusto.
Più di una volta sono ritornato sulla letteratura sinfonica che già nei miei anni giovanili mi aveva occupato e attratto prepotentemente, ma fino a oggi non c’è stato niente che mi abbia fatto cambiare idea sulle mie scelte. Anche la musica a programma viene accettata e innalzata nella sfera dell’arte soltanto se il suo creatore è anzitutto un musicista dotato di fantasia, capace di dare forma alle sue idee. Altrimenti è un ciarlatano; perché anche nella musica a programma ciò che si richiede prima di tutto e soprattutto sono la qualità e il vigore dell’invenzione musicale.

Forse è nell’ essenza del tempo il fatto che chi viene dopo di noi, la nostra ‘giovane generazione’, i nostri ‘contemporanei’, non possano più riconoscere i miei lavori teatrali e sinfonici come un’ espressione compiuta di ciò che mi faceva vivere in essi come musicista e come uomo; dal punto di vista musicale e artistico questi problemi per me però sono già risolti, mentre per la ‘giovane generazione’ cominciano appena. Siamo tutti figli del nostro tempo e non possiamo mai saltar fuori dalla sua ombra.

Über Komponieren und Dirigieren, «Berliner Börsen-Courier», 8 giugno 1929, edizione della sera)

 

Nach bayerischer Art: Ois Godde Maestro Strauss!

 



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