Magazine Opinioni

Per l’Indipendenza della Scozia – Hugh MacDiarmid e la rivoluzione attraverso la poesia

Creato il 13 settembre 2014 da Carusopascoski

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”
Wittgenstein

Il danno peggiore che la Lega ha fatto in Italia è quello di aver diffuso la percezione che i movimenti indipendentisti siano altrove come qui gruppi di alcolizzati e analfabeti allo sbaraglio o arrivisti senza alcuna visione d’insieme. Siccome il movimento indipendentista scozzese è invece serio, lucido e duro a morire, io tifo per loro il 18 settembre prossimo e non mi dispiacerebbe se un giorno lontano, all’interno di un’Europa concretamente federale, toccasse alla Toscana. Come segno di buon auspicio riprendo in mano il loro miglior poeta del ‘900, Hugh MacDiarmid, che nella prima metà del Novecento si oppose al colonialismo inglese rispolverando lo scozzese nei suoi testi attraverso l’invenzione di una lingua che lui chiamava “scozzese sintetico”, umiliando così l’invasore e la sua lingua e riesumando “elementi inconsci di una psicologia scozzese a sé stante”, con l’effetto di “ottenere per la Scozia ciò che gli sforzi congiunti della Lega Gaelica e della Rinascita Letteraria ottennero per l’Irlanda”, come racconta di lui Seamus Heaney in un bellissimo capitolo a lui dedicato del suo La riparazione della poesia (Fazi Editore). L’indipendentismo scozzese si manifesta proprio negli anni in cui opera MacDiarmid, tanto che lo Scottish National Party (SNP), il partito promotore del referendum, fu fondato nel 1934, piccoli esempi di come la letteratura possa essere davvero rivoluzionaria e come una manciata di poesie possano ottenere gli stessi effetti delle armi canoniche senza spargimenti di sangue, ma solo incrementi di conoscenza, sentimento e civiltà. Questo esempio viene raccontato nella prefazione all’edizione italiana di On a raised beach (Supernova Edizioni), tradotto e introdotto da Marco Fazzini e di cui estraggo la parte qui più attinente. Al termine, una canzone che adoro di una grande band scozzese che si è pronunciata con forza per l’indipendenza scozzese in passato e adesso con referendum alle porte, i Mogwai.

Per l’Indipendenza della Scozia – Hugh MacDiarmid e la rivoluzione attraverso la poesia

Marco Fazzini – La rinascenza scozzese e Hugh MacDiarmid

Dopo un passato glorioso sia per lo scots (lo scozzese) che per il gaelico, già nell’Ottocento furono palesi i sintomi di una rapida estinzione delle lingue minoritarie della Scozia. Durante la seconda metà del secolo scorso, e per almeno due decadi fino agli anni settanta, il sistema educativo scozzese subì un radicale cambiamento, soprattutto dopo l’introduzione dell’Education (Scotland) Act. In base a questa legge del 1872, si introdusse in Scozia “uno dei sistemi scolastici dall’organizzazione più centralizzata del mondo”, determinando altri problemi conseguenti l’intero processo di ridefinizione della cultura scozzese. Colin Milton osserva che i parametri che “le scuole scozzesi furono incoraggiate ad adottare dall’ispettore scolastico non erano parametri scozzesi; la pressione era verso l’anglicizzazione, come le relazioni degli ispettori mostravano chiaramente verso la fine degli anni novanta. Così, in Scozia, la riforma educativa non solo minacciava le particolarità regionali ma anche, e più fondamentalmente, la stessa identità nazionale.
Il controllo linguistico e culturale in mano agli inglesi fu la diretta conseguenza di un più diffuso controllo politico che imperava ormai sin dal 1707, data del passaggio della corona scozzese sotto l’egida britanica. Sin da allora la decadenza dell’uso dello scots per intenti letterari andò di pari passo con l’impatto religioso di cui godette la traduzione della Bibbia ad opera di Re Giacomo. L’abolizione del parlamento della Scozia e la conseguente rimozione della corte a Londra, svalutò lo scots e la cultura ad esso legata in quanto rispondenti ai parametri di marginalità e barbarismo dettati dalla sovranità politica e culturale della voce civilizzata, centrista ed estetizzante del regno. “I gallesi, gli scozzesi e gli irlandesi devono dimostrare, quindi”, come notano Cairns e Richards, “di parlare inglese come prova della loro ammissione all’interno della più vasta potenza potenza dell’Inghilterra, eppure devono parlarlo con sufficiente deviazione dalla forma standard per affermare il loro status chiaramente subordinato all’interno dell’unione”. Con ciò ebbe inizio ciò che Jan Mohamed ha definito di recente come l’asse per il macchinario ideologico dell'”allegoria manichea”. Quale conseguenza si determinò il declino delle lettere scozzesi, ma anche un progressivo depauperamento della forza legante che le lingue locali esercitavano per materie sia letterarie sia di corrente quotidianeità.
La lingua standardizzata e standardizzante imposta come la riunione delle corone ridusse lo scots ed il gaelico a semplici ed incivili dialetti, mezzi bassi e barbari di comunicazione linguistica. Se quindi con Burns ed i suoi imitatori lo scotes godette in parte di un periodo di fulgore verso la fine del Settecento, il suo disuso coninuò per tutto il diciannovesimo secondo fin quando MacDiarmid pensò di fargli incarnare l’elemento oppositivo che Nietzsche chiamò dionisiaco, e che Joyce usò per sfidare il potere apollineo della tradizione inglese.
Ciò che MacDiarmid propugnò negli anni venti e trenta del Novecento fu la rinascita delle lingue locali, degli idiomi che potessero riuscire a rappresentare l’intera gamma della vita a Scozia, ridefinendo la natura ed il carattere delle tecniche nazionali e dell’economia artistica. Nelle parole di MacDiarmid: “L’udo letterario del vernacolo – quanto del gaelico – è solo un aspetto di tutto ciò; un problema nel problema; e non sostengo la campagna per la rinascita del Doric se viene dimenticata l’essenziale diversità-nell’unità scozzese, né dove le tendenze implicate possano dimostrarsi anticulturali.”
Spence attorno alla fine del secolo scorso, e MacDiarmid successivamente, furono i due intellettuali che mostrarono di nuovo tutte le potenzialità d’un elemento di caratterizzazione culturale, un elemento che nelle loro mani divenne con facilità un mezzo di lotta politica e letteraria. Lo scots, questa lingua autoctona che per molti non poteva elevarsi a nulla più che ad un rozzo dialetto locale, stava per sfoderare, grazie ad una azione sconvolgente quanto ardita, le sue armi migliori. Commentando su questo rinnovamento, Alan Bold sottolinea in modo chiaro la nuova apertura che Spence mette a disposizione di MacDiarmid: “Spence aveva mostrato che lo scots non era affatto una lingua morta e sepolta ma una letteratura a cui si era permesso d’andare in atrofia. Ci sarebbe voluto ovviamente un genio per scuotere lo scots alle sue radici e fargli sostenere il peso della poesia moderna. MacDiarmid era pronto, deciso e capace a fare proprio questo.”


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :