Senza vergognarsi di sé e senza suscitare nemmeno l’indignazione di milioni di ammiratori, più o meno accorti, che ne hanno seguito le acrobazie razionali nei secoli a venire, l’ostile all’esistente Hegel sentenzia: “lo Stato, in quanto è la realtà della volontà sostanziale, che esso ha nell’autocoscienza particolare, elevata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è fine a se stessa, è un assoluto, immoto, nel quale la libertà giunge al suo diritto supremo, così come questo scopo finale ha il più alto diritto di fronte ai singoli, il cui dovere supremo è di essere componenti dello Stato” L’”uomo addomesticato”, nella fattispecie, sentì sempre il bisogno di barattare la propria “idea di libertà” con l’istinto di sopravvivenza e l’alleviamento di ogni pericolosità, nella misura in cui lo “stato” dilata ed accresce l’ampiezza del proprio raggio d’azione per universalizzare ogni particolare a sé. E dunque il potere di questo stato impiccione lievitò sopratutto in ossequio alla razionalizzazione, cosicché cominciarono a trovare asilo in esso anche le nuove gorgoni ereditate dal logos: l’efficienza, la produttività, il calcolo e lo spirito capitalistico del massimo profitto, incarnati della spaventevole classe borghese. Al rozzo e violento signore feudale non fregava un granché del profitto, era piuttosto approssimativo nel calcolo ed arbitrario nell’esercizio di un diritto altrettanto volubile. Proprio perché la precisione di un’imposta, così come la certezza del giudizio, sono dapprima strumenti utili solo per chi vuole conquistarsi una posizione di potere in cui si sente mancare. Durante l’epoca preindustriale, è un dato di fatto, si pagavano meno tasse rispetto all’età post-rivoluzionaria e, fatto ben poco sorprendente ormai, anche rispetto all’oggi. Massimo Fini riporta questo “vero volto” della Rivoluzione nel suo “La ragione aveva Torto?”, ricavandolo dalla risposta che un proprietario dell’Indre, Gabriel Alamore, diede al proprio affittuario: “ti ho affittato i miei beni nel gennaio 1789, quando su di essi gravavano diversi diritti signorili. Se non ti avessi obbligato ad osservarli il mio affitto sarebbe stato maggiore. Quello che deve approfittare dell’abolizione dei diritti feudali sono io, il proprietario, non tu, l’affittuario”. Il “potere” dell’ancien régime, soprattutto quello iper-atomizzato in una frotta di unità slacciate tra loro, tipico dell’altomedioevo, non sentiva alcun bisogno di staticizzarsi in un corpus immutabile, era anzi, al netto dei faziosi resoconti illuministi e dell’imbarazzo di qualche storico militante, ben poca cosa se raffrontato alla monolitica macchina di controllo che andava via via stringendo le maglie del proprio efficientismo sul popolo. Il potere aristocratico infatti, almeno in teoria, non trascende mai in un apparato, non incorpora a sé, ma divide e separa in gerarchie: l’état c’est moi!
Solo
colui che è in grado di assoggettarsi a sé stesso potrebbe in tal caso possedere
il potere. L’essenziale per ogni aristocrazia infatti “è che essa non si avverta come funzione, bensì come senso e come
suprema giustificazione”.
Il
potere non si attua mai in una concretizzazione immota, esso significa casomai,
come peraltro allude l’etimologia, l’apertura verso una possibilità,
“potenziale” appunto. “Poter agire” e tuttavia accettare, anche contro il
proprio interesse contingente, di non esercitare appieno questo privilegio – non
è forse questo che qualifica ogni uomo che abbia anzitutto il possesso di sé
stesso, un individuo proprietario, la cifra stessa della magnanimità aristocratica -?
Un
tipo di uomo siffatto vuole avere vincoli e li vuole esclusivamente per
possederne la responsabilità; non intende affrancarsi da ciò che egli è;
indipendente come lo sono tutti gli spiriti che non si vergognano di quello che
sono, non saprebbe cosa farsene della convenuta statuita libertà plebea. La sua
è invece una libertà che ha una diversa origine, una libertà che non libera ma
conquista, rarefatta e pungente come l’aria di montagna: adesione totale ad una
necessità a cui, sola, si deve obbedienza – sé stessi e la vita -.
Carlo
Magno ad esempio, prototipo di un mondo feudale frazionato e polverizzato in un
coacervo di enclave, del tutto anarchico
per lingua, usanze, leggi e codici, consuetudini e tradizioni, unità di misure
e grandezze - per cui ci si comportava alla fine “come pareva e piaceva”,
singolarmente, “al di là del bene e del male”-, tentò di dare al proprio regno
un’uniformità che imitasse anzitutto la forma del sovrano stesso. Per dirla con
Nietzsche: “l’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore,
non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è “quel che è
dannoso per me, è dannoso in se stesso”, conosce se stesso come quel che
unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori”.
Lo
“stato” in-dividuale del carolingio infatti, in quanto diretta emanazione del
proprio potere patrimoniale, non gli sarebbe sopravvissuto nonostante i suoi
sforzi (la Renovatio Romani Imperii
ed i missi dominici con la scuola
palatina incaricati di dargli una struttura, furono forse soltanto, in
quest’ottica, la sbandata di un’euforia momentanea, o magari l’umano
rilassamento verso un impossibile possesso senza tensione).
Lo
“stato” di Carlo Magno non si esauriva in un’espressione geografica compiuta,
né tantomeno nella precisione e nel rigore di un’astrazione fintamente
razionale. Uno “stato” che non era mai completamente immobile, ma mutava e si
modificava in un costante gioco di riflessi: itinerante come lo era la natura
del suo “creatore”, ed instabile come lo può essere qualsiasi uomo bennato.
La “franchezza” e la disinvoltura con cui il
carolingio si muoveva tra le questioni di potere emerge sommariamente anche
dalla “franchezza” con cui egli considerava l’estensione dei territori
conquistati. Non vi erano confini fissamente stabiliti a tavolino o
preventivamente concordati, ché il confine indica anche il rifiuto di un
superamento, la fine di un appannaggio e l’inizio di un’incognita. Come
l’antico retaggio romano da cui deriva la parola, la frontiera del proprio
regno non si misurava con il raggiungimento di un obiettivo (con-fine), né con
la razionaleggiante volontà di definire ciò su cui si è impressa la propria
orma, ma con l’orizzonte della propria potenza guardato “a testa alta” –
frontiera -, sciente limite di ogni ulteriore potenzialità da saggiare (il limen).
Più vicino ai nostri tempi, ma non probabilmente al
nostro sentire, anche l’”inattuale” Federico II di Hohenzollern, sconfitto a
più riprese dai nemici, con Berlino ormai perduta e senza alcuna manifesta
possibilità di riscatto, continua a girovagare col suo esercito per la sua
Prussia: lo “stato” non è un luogo statico e concluso, ma è il suo esercito di
cui egli è il limite e la potenza stessa.
Una concezione del potere e della sovranità che
nulla ha a che vedere col già corrotto Bodin, né con l’idea di Stato hegeliana,
ma rassomiglia piuttosto al concetto di Unico
stirneriano: “la mia proprietà finisce dove
finisce la mia potenza”.
Ad
uno “Stato piovra”, assoluto, che impone agli uomini la sua libertà, la sua
giustizia e il suo ordine, preferisco la precarietà di un uomo gravato dai suoi
pensieri, ma consapevole che la giustizia e l’ordine possono svolgersi solo
nell’arbitrarietà e tuttavia, macinatosi nel dubbio e ricurvo per le notti
insonni, accetta di prodursi in ciò che dispregia più di ogni altra cosa: fingere
che il proprio arbitrio vada bene per tutti, indistintamente.
Laddove
lo Stato moderno trova la propria giustificazione ed il proprio potere, ovvero
nel bisogno di fissare i confini del suo agire per scongiurare la propria
scomparsa, l’aristocratico premoderno trova invece il proprio tramonto ove
trasportare con sé tutto il suo potere.





