Negli ultimi tre anni sono stati divorati dal cemento 720 km quadrati. Lo denuncia un recente rapporto dell’Ispra. La colpa non è tanto delle nuove case, ma delle strade. Un’urbanizzazione disordinata che danneggia il territorio
Immaginiamo di sommare il territorio dei comuni di Milano, Firenze,Bologna, Napoli e Palermo. Otteniamo720 chilometri quadrati. Vale a dire l’equivalente di tutto il suolo italiano che è stato divorato dal cemento negli ultimi tre anni. Ogni secondo, notte compresa, ne perdiamo 8 metri quadri. Ogni giorno, 70 ettari: l’equivalente di un centinaio di campi da calcio. Ed è praticamente impossibile tornare indietro. Il consumo di suolo è un tema che su Valori seguiamo da tempo. È prepotentemente tornato alla ribalta alla fine di marzo, quando l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha pubblicato un rapporto che, per la prima volta, ricostruisce il suo andamento dal secondo dopoguerra
a oggi. Se questi dati hanno conquistato pagine e pagine sui principali quotidiani nazionali è perché non possono lasciare indifferenti. Dipingono un Paese malato, che si sta privando di una risorsa fondamentale per contrastare le emissioni di CO2, garantire la biodiversità e l’equilibrio idrogeologico. Un problema che si fa sentire da Nord a Sud dello Stivale: se in Lombardia e in Veneto si supera il 10% di suolo consumato, le
percentuali sono comprese tra l’8 e il 10% anche in Campania, Lazio, Puglia e Sicilia.
Più strade che case
Ma, al di là delle cifre (che riportiamo nei grafici in queste pagine), la vera novità di questo rapporto è che disaggrega i dati per capire quali sono le opere responsabili del consumo di suolo. «Ne emerge che i veri protagonisti non sono case, scuole e ospedali, ma le infrastrutture per la mobilità: insomma, siamo più asfaltati che cementificati. D’altronde, in un momento in cui l’edilizia vive una crisi senza precedenti, cosa si continua a costruire se non le strade?», spiega a Valori il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine. Le strade coprono, infatti, quasi la metà del suolo consumato. A loro bisogna aggiungere un altro 14% formato da piazzali, parcheggi, cantieri, discariche e aree estrattive. Agli edifici rimane solo (si fa per dire) il 30%. Un dato che fa letteralmente a pugni con il sentire comune e con le affermazioni della politica, che dipingono l’Italia come un Paese in perenne ritardo infrastrutturale.
Un’urbanizzazione disordinata
«Le grandi opere, dalla Tav alle autostrade, certamente hanno un ruolo nel consumo di suolo», spiega l’ingegner Michele Munafò, autore del rapporto. «Bisogna considerare anche le strade secondarie e locali, che, prese singolarmente, sembrano ininfluenti, ma nel loro insieme coprono una superficie considerevole. Ma il ruolo più importante è quello delle infrastrutture legate a un modello insediativo che tende sempre
di più verso un sistema di dispersione urbana e non di città compatta». Tradotto: se si costruisce un centro commerciale fuori città si “perdono” i metri quadri occupati dall’edificio, ma anche quelli coperti dalle strade, dai parcheggi, dagli svincoli e da tutte quelle attività e quegli insediamenti che nascono in funzione del centro commerciale stesso. E le nostre città tendono sempre di più a espandersi in questo modo
disordinato: si tratta del cosiddetto urban sprawl, di cui abbiamo parlato diffusamente su Valori di dicembre/gennaio.
Quello dell’espansione incontrollata delle aree urbane a bassa densità di popolazione non è un fenomeno solo nostrano. Gli esempi più famosi, non a caso, sono Los Angeles e Atlanta. È una tendenza che in parte nasce da fattori socio-economici sedimentati negli ultimi sessant’anni, come – ricorda Di Simine – il graduale spostamento delle fabbriche dal centro alla periferia. Ma anche la convenienza economica gioca un ruolo importante. Com’è noto, infatti, la casa in campagna per l’acquirente ha un costo al metro quadro molto più basso rispetto all’appartamento in città, ma garantisce molto di più al costruttore in termini di rendita differenziale.
«Dobbiamo avere il coraggio – afferma Di Simine – di aggredire con un diverso carico impositivo fiscale questo meccanismo, che è alla base della speculazione immobiliare. Per contro, dobbiamo privilegiare l’edilizia del riuso, semplificandone i tempi e le procedure. Il ragionamento deve essere questo: si può costruire su aree libere, consumando suolo, a patto che le esigenze lo impongano. Non certo perché è la via più breve per arricchire il portafogli dei costruttori». «Né tantomeno per risollevare i bilanci dei Comuni – gli fa eco Munafò – che incassano i proventi degli
oneri di urbanizzazione e, a seguito dell’abrogazione della legge Bucalossi, li possono utilizzare al 75% come moneta corrente».
Città da ri-utilizzare
Se vogliamo tutelare le nostre campagne minacciate dall’avanzata del cemento, insomma, è dalle città che dobbiamo ripartire. Lavorando su più fronti per la rigenerazione urbana, per la rinascita dei piccoli borghi, per il riuso del patrimonio edilizio già esistente e delle aree industriali dismesse. «Gli enti locali spesso non sanno neppure quali sono gli edifici inutilizzati nel loro territorio – spiega Munafò –, edifici che potrebbero rivelarsi utilissimi per risolvere i problemi abitativi, magari attraverso una politica parallela degli affitti». In sintesi, c’è tanto da fare. «In alcune città come Milano, le zone centrali si sono svuotate di popolazione per lasciare spazio alla finanza.
Altrove, soprattutto al centro-sud, gli edifici vuoti hanno iniziato letteralmente a crollare.
Dobbiamo fare quello che per anni non abbiamo fatto: investire sulle città. E non è un investimento di poco conto! Fermare il consumo di suolo
dunque non significa deprimere ancora di più l’economia ma, al contrario, significa far rinascere l’edilizia sulla base di un nuovo modello di politiche industriali. Stiamo parlando di economia vera, un’economia fatta di cantieri, di opere, di interventi», argomenta Di Simine. A questo punto, inevitabilmente, deve entrare in gioco la politica. Una politica che si sta facendo avanti: mentre scriviamo questo numero di Valori, il disegno di legge sul Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato è all’esame della commissione Ambiente della Camera.
Anche l’Ispra ha collaborato per elaborare le definizioni tecniche e allineare il testo alle linee guida pubblicate nel 2012 dall’Unione europea per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, fino ad arrivare entro il 2050 a un consumo di suolo netto pari a zero. «Siamo
globalmente soddisfatti di questa norma – commenta Munafò – ma a preoccuparci sono i tempi. Il disegno di legge prevede una serie di passaggi che dovranno essere definiti tramite decreti specifici. Noi proponiamo però di stabilire già da subito degli obiettivi cautelativi per evitare che nel frattempo si prosegua come se niente fosse con i piani urbanistici previsti da gran parte dei Comuni italiani, che ci porterebbero a perdere buona parte del nostro territorio. È un qualcosa che non ci possiamo più permettere: i numeri dimostrano che ormai il nostro territorio in gran parte è già perso, è fragile e non si può consumare ancora».
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