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Per un altro poeta che se ne va. Roberto Roversi (1923-2012)

Creato il 15 settembre 2012 da Giuseppe7405



Da DOPO CAMPOFORMIO Una terra
Un bioccolo di lana frusta nel tramonto alberi, fiori, muove il trotto dell’onda. Sulla sponda i ragazzi con la schiena inarcata puntano i piedi nella rena; “dài pa’ssì, oh… ooh!” lo scafo stride sulle palanche nere, Antonio padre sfiora l’acqua, è nel mare, apre cigno le ali, le lampare, anatrelle, l’avvincono con corde e la flottiglia corre in alto mare. Nella notte, chini sul fondo, gli uomini pescano se la luna è piena o la corrente non spinge in Dalmazia il cefalo che volge guizzi in oro. Un lume è acceso laggiù oltre il mio dito: Antonio padre al palpito del primo fiore in cielo tornerà. L’inverno è lungo stretto dentro un mare pauroso; quando giugno allora brucia il dorso ai delfini i marinai avventano nei solchi sonno, fatica, reti rammendate. È morto il capitano. Cade in mare ogni luce di festa dai giovani cuori; a riva le donne attendono ammucchiate. Un marinaio è al timone, bianco agnello; così gli uomini antichi veleggiavano approdavano a isole felici. La barca vira, si torce, si china mentre s’alza il lamento. Una voce: “Tu, tesoro di mamma, meschina perla bruciata da un vulcano, sei trascinato a terra con la mano in croce, sulla sabbia, dal vento, uccello spento di rabbia, scuro, ecco il riposo”. Vanno in tumulto con le ali aperte. I fortunali cadevano sulle onde deserte al colpo della frusta di questo uomo. Steso sul sacco è un tronco incenerito, è tuono offeso, esploso, dileguato; il calzone al ginocchio accartocciato. Vita, mia vita come sei terribile e amata: uno sconforto senza consolazione è ancora vivo negli occhi di questo morto che ieri con tutti i suoi pensieri era nel mare.
Il venditore di pesce per strade e sentieri fu in America un tempo. “Sempre un fumo nel cielo; pane, carbone, nel vino la polvere; tristi le donne, negli occhi la polvere; i ricordi chiamavano lontano. Ora mio figlio lavora a Milano e quella è la mia casa. Addio America”. Sul prato ferma ride la sua casa cresciuta in fretta. Spinge la bicicletta, grida il pesce giallo sul ghiaccio e viole: “chi prende il pesce, pesce fresco di mare?” va scalzo a chiamare sul viale nell’ombra dei tronchi, sfiorato da siepi a filo del mare. Un vagabondo canta e ruvidi marinai ascoltano a un fanale. Sulla strada appassiscono i gerani bucati dai fari delle macchine, autotreni scuotono l’asfalto, i pioppi coprono fra lo stridio dei freni l’agonia di un gatto sfracellato. “A Senarica, amica di Venezia…” fuochi verdi aprono la gola ai cani sulle aie del monte screziato da barbagli sereni all’orizzonte. Il vecchio intona con pena un canto triste e i fiori tremano, cadono, muoiono nella polvere. L’erba è gialla, pietre; il cimitero con gli ulivi e cipressi sbiaditi. Anche nella pace i morti non hanno tregua, risaliti dal profondo si stringono le mani rotte dalla fatica. Madri stroncate dalle gravidanze, invecchiate con pazienza infinita su reti, uomini stanchi più dell’aria d’autunno: con il viso inchiodato fra due date sanno che non c’è pianto non gridato né un giorno senza male: che la vita nel dolore fu tutta patita. Rimpiangono solo l’oblio dei vivi, d’essere dimenticati in poche ore. I ricchi almeno hanno il nome dipinto nelle prore delle barche che rosse sul lido con gli alberi e vele ammainate attendono la piena primavera per gettarsi con un grido sui branchi morbidi e azzurri nelle calme correnti verso l’Africa. La rocca ancora incombe a precipizio. Un tempo sulle alture i noci contorti strisciavano a terra foglie di quattrocento anni, eppure adesso il silenzio è favola per i vecchi che muoiono nel sole. Le case all’ombra delle tamerici, fra le siepi, case di girovaghi e pescatori, pittate di bianco, formaggio fresco su una foglia di fico, sono cadute; scompare adagio la gente che non trema alle nevi dell’inverno. Crescono giovani aspri, amare mandorle in un tempo d’inferno, di lampi e sorprese telluriche nell’aria grigia che illividisce ogni città; il sangue arde dentro i cuori straziati dall’unghia del mostro che si torce. Ma quale mondo apparirà dopo la pena necessaria! Là il monte, laggiù è il mare: il mare con le speranze strappate a una barca che adagio s’avvicina. Sui chioschi di benzina cantano i tordi e volano nelle vallate alle ragazze dal petto tremante oh così dolcemente. Quelle del mare, ardite fiere contrastano, sono restie agli sguardi maliziosi e azzannano come i lupi di selva. (Pace con voi, ragazze dell’Abruzzo, una è sangue al mio cuore.) A Corropoli fumano i camini, gli alberi difendono le case dove i topi imperversano e la razza degli uomini passati consumò nel rancore una vita vile. Case per amori di monache, per grida soffocate, per pugnali cavati al frusciare di un uscio o all’ombra di un cortile. Ma strappa la tenda dal cielo una donna accosciata nel vento, canta un riso gentile; palpita l’aria fatta azzurra al lume dei suoi occhi mentre con le mani in cui traluce l’osso sceglie e vaglia il frumento.
Per un approfondimento, interessante e denso questo contributo del 2005 della rivista “Poesia”: http://www.poesia.it/servizi/ROVERSI.pdf

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