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Per un’antropologia teologica delle Pietre leccesi

Creato il 04 marzo 2011 da Cultura Salentina
Per un’antropologia teologica delle Pietre leccesi

©Lecce: Piazza Duomo

Ad una riflessione più attenta, la scelta dei materiali impiegati nella costruzione e decorazione delle chiese barocche del Salento sembra non essere casuale. Pietre, legnami e colori andrebbero esaminati singolarmente, così da rileggerne l’impiego alla luce di quella che potremmo definire una teologia dei materiali o, meglio ancora, un’antropologia teologica degli stessi. Questi infatti possiedono una silenziosa eloquenza, che stimola ad andare ben oltre la materialità.

 

Ascanio Grandi (1567-1647), il più celebre poeta manierista di Terra d’Otranto, così celebrò la pietra leccese nel suo poema epico I fasti sacri:

Neglette, e quasi molli in ampia massa,
le pietre a Lecce crea l’alma Natura:
ma poiché son rescise, in loro passa
virtute, che le pregia, e che l’indura:
mirabili a vederle, ò se vi si lassa
scelti lavor la dedala scultura,
ò se ne fanno i dorici Architetti
gran frontespitij con superbi aspetti.

Correva il 1635 e quel materiale così particolare, tipico dell’area salentina, viveva la sua età dell’oro.

In realtà la pietra leccese ha accompagnato l’evoluzione dell’uomo del Salento fin dalla preistoria, come dimostrano l’alto numero di dolmen e menhir con essa realizzati e disseminati soprattutto in provincia di Lecce, ma pure numerosi reperti di epoca romana.

Già i ricercatori ottocenteschi, con i mezzi limitati del periodo, concordavano correttamente nel collocarne l’origine al periodo dell’era del Terziario noto come Miocene, protrattosi da ventitre a diciassette milioni di anni fa.

È una roccia calcarea, appartenente appunto alla famiglia delle calcareniti mioceniche. La sua particolarità consta nella commistione del cemento calcitico con un’alta percentuale granulare di frammenti fossili e microfossili, perlopiù di specie planctonica e bentonica. In alcuni campioni posti sotto esame i paleontologi hanno addirittura rinvenuto fossili di cefalopodi, capodogli e delfini, pesci e tartarughe marine, denti di squali e di coccodrilli. Le diverse miscele del carbonato di calcio (CaCO3) con granuli di glauconite, quarzo, feldspati, muscovite, fosfati e materiali argillosi originano le diverse varietà del materiale, resistente e compatto, oppure tenero e duttile. Le differenti tipologie di leccese, dunque, si distinguono soprattutto per la granulometria ma anche per la colorazione, che può abbracciare varie tonalità tra il biancastro e il giallo paglierino.

Estratta con facilità nell’immediato sottosuolo, la pietra è sezionata nelle stesse cave – oggi come nel passato – in parallelepipedi di diversa taglia. La sua tipica malleabilità, dovuta all’argilla che contiene, la rende ideale per l’utilizzo architettonico e per l’intaglio artistico.

È la stagionatura a conferire compattezza e resistenza al materiale che, col tempo, assume una tinta ambrata, vicina al color del miele. Le caratteristiche finora esposte, che rendono pregiata la pietra leccese, sono le stesse che ne minano l’integrità e la durata nel tempo. Sensibile agli agenti atmosferici, essa può subire seri danni dalle infiltrazioni d’acqua piovana e per l’umidità di risalita dal terreno. Ecco perché i previdenti maestri del barocco, per restringere i rischi dell’esposizione alle intemperie, erano soliti trattarla con il latte. Occludendo le porosità della pietra, infatti, il lattosio la rendeva pressoché impermeabile. Da qui il termine dialettale ‘llattàre, passato poi ad indicare genericamente l’imbiancatura delle pareti. Quando simili precauzioni non erano coscienziosamente poste in atto, le sculture realizzate in pietra leccese e perfino le strutture murarie con essa innalzate erano destinate a breve sopravvivenza, soprattutto per l’insorgere di un micidiale tarlo che sbriciola irrimediabilmente la materia.

Affine alla pietra leccese è il carparo, che si distingue dalla prima per la grana più grossolana e per una maggiore porosità. Friabile al punto tale da non essere adatto a lavori di intaglio, è usato perlopiù per rivestimenti esterni e conferisce agli edifici una cromia più calda. La sua tipologia più anemica e di pregio assai inferiore, il tufo, è impiegata da secoli nell’edilizia civile e religiosa del Salento in forma di conci, come sostitutivo dei mattoni.
Per un’antropologia teologica delle Pietre leccesi
Pietra leccese e carparo, dunque, rimandano col proprio colore caldo all’indole stessa dei salentini, alla loro storia plurimillenaria. Impiegati da sempre nella costruzione delle case, sono materiali indicativi del temperamento della gente di Terra d’Otranto e ne rivelano inconsciamente la personalità.

A voler fare i teologi spocchiosi, si potrebbe fantasticare sul fatto che edificare un tempio in pietra e non in mattoni rimarchi il dialogo tra Gesù e Simone di Betsaida, ritenuto il passo evangelico fondativo dell’ecclesiologia cattolica: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). In realtà, in un periodo storico quale l’età barocca, caratterizzata dall’influenza spagnola – pur mediata dalla napoletanità – innalzare edifici sacri in pietra locale e non in marmo significava sentirsi soggetti religiosamente attivi e protagonisti del rinnovamento ecclesiale sancito dal Concilio di Trento (1545-1563). Significava, in pratica, sentirsi in chiesa come a casa propria. Significava fare di una terra di periferia l’ombelico del mondo. Significava attuare, con un anticipo di oltre quattrocento anni, quel circuito economico-sociale che oggi chiamiamo filiera corta. Più intelligenti di noi i nostri padri! Mamma, quanto!


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