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Per una riforma dell’università di Mauro Capocci (recensione per Le Scienze, Marzo 2010)
Creato il 19 febbraio 2010 da SylosIl buon senso non è tutto, ma spesso aiuta: è il pregio maggiore di questo libro. Per chi si occupa della questione «università e ricerca», il contenuto è per larga parte già noto: è però salutare, e importante, leggere un lungo ragionamento che incatena senza isterismi i diversi aspetti della crisi dell’accademia italiana. Emergono le evidenti origini medievali delle istituzioni: baronie, feudi, ius primae noctis, alte mura di protezione sono ancora all’ordine nel giorno nel terzo millennio. Hanno la forma di burocrazie mostruose e arbitrarie, di firme su pubblicazioni su cui non si è lavorato, di concorsi fintamente pubblici, di età considerata merito. L’aspetto anagrafico è forse quello più preoccupante, un tasto su cui battono più volte gli autori: la nostra classe accademica è anziana, e sta invecchiando sempre di più. L’ingresso di forze nuove avviene con il contagocce, ed è preceduto da forme sempre più degradate e degradanti di lavoro.
Anni di precariato con salari minimi, insegnamenti retribuiti con cifre irrisorie, per entrare nel sistema a quasi 40 anni. Le statistiche del 2007 sono impietose: il 56 per cento dei docenti universitari (ricercatori, associati, ordinari) ha più di 50 anni e il 14 per cento ha superato anche i 65. Nei paesi OCSE quest’ultima cifra si aggira intorno al 2 per cento, cioè l’equivalente di quanti sono in Italia gli strutturati sotto i 30 anni. Tra gli ordinari, gli ultracinquantenni sono l’81 per cento. Gli scatti automatici degli stipendi, indipendenti dalla produttività scientifica o didattica, sono poi specchio delle politiche di reclutamento degli atenei. La progressione di carriera, cioè i passaggi da ricercatore ad associato e da associato a ordinario, hanno assorbito la maggior parte dei finanziamenti per il personale nell’ultimo decennio.
È venuta a mancare la normale dinamica di reclutamento, piramidale, con molte immissioni nei ranghi più bassi e pochi spostamenti verso l’alto. Si è invece creata una situazione di casta. Una corporazione accademica chiusa, orientata ai propri interessi, quasi impermeabile al vasto mare di precarietà che la circonda e che permette l’esistenza stessa dell’accademia. Gran parte sono precari impiegati dall’università con forme contrattuali atipiche (assegni di ricerca, borse di studio, co.co.pro.) senza coperture di alcun tipo. Se in tutto il mondo il personale dell’università e della ricerca è in gran parte non permanente, i contratti sono più evoluti: stipendi normali, coperture assicurative, contributi pensionistici a vario titolo.
Il sistema italiano si è incancrenito negli anni, e nessuna riforma è mai riuscita a scalfirlo. Sottolineano giustamente gli autori che è mancata la responsabilità personale di chi compie le scelte: assumere un ricercatore che non produce nulla non comporta una diminuzione di finanziamenti per l’università. In assenza di una valutazione seria dei risultati scientifici, capace di incidere sulle scelte accademiche successive, il sistema non sarà mai in grado di migliorare.
Sylos Labini e Zapperi suggeriscono metodi internazionalmente riconosciuti per valutare la ricerca: nessuno è la soluzione perfetta, ma il peggiore sarebbe comunque un passo avanti. Ugualmente, una riforma non dovrebbe essere «emergenziale» né draconiana, come quelle annunciate in pompa magna da Moratti, Mussi, Gelmini (e Tremonti). Piuttosto dovrebbe prendere in considerazione un periodo di ammortizzazione, in cui il pensionamento anticipato (prima degli attuali 70 anni e più) non vada a discapito di chi a 40 anni entra nell’università con stipendi imbarazzanti (e arriverebbe a una pensione da fame). Le proposte sono varie e valide, ma soprattutto «normali». Indicano una strada percorsa da tanti altri paesi: assunzioni su base regolare, investimenti pubblici costanti e certi, valutazione della produttività scientifica, responsabilità personale. Una pianificazione di semplice buon senso in cui in molti (soprattutto i baroni) dovrebbero rinunciare a qualche privilegio, ma tutto il paese avrebbe da guadagnare.
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