La frammentazione politica del Paese come il puntinismo
Perché è così difficile fare una legge elettorale? Per perfetta che essa sia, ci sarà sempre qualcuno che ne rimarrà insoddisfatto. Ma perché il processo di modifica o di riforma in materia elettorale risulta sempre così farraginoso? Perché non si fa semplicemente tabula rasa di tutto, invece di arzigogolare su leggine nuove dietro i vecchi sistemi? La confusione regna sovrana. Questa tela di Penelope è ben lungi dall’essere terminata perché i motivi che stanno alla base delle operazioni di ingegneria elettorale sono tutti esclusivamente politici.
La legge elettorale, infatti, è così cara ai governanti perché rappresenta la traduzione giuridica del meccanismo scelto per trasformare i voti validamente espressi in seggi. Un tema talmente cruciale da essere uno snodo importante persino nella morfologia della forma di governo. Come avviene nella nostra Costituzione, dove proprio tale legge riceve una protezione particolare, essendo sottratta dall’eventualità di un’approvazione sommaria in Commissione. Del resto, la cernita tra le varie soluzioni adottabili è il momento di scontro più vivo fra politici e studiosi perché, a seconda della scelta effettuata, verrà privilegiato un tipo di partito piuttosto che un altro. Il proporzionale puro? Porterebbe tutti i movimenti politici in Parlamento e il Paese risulterebbe ingovernabile. E il maggioritario con collegi uninominali? Si ribellerebbero di certo i partiti più piccoli, che non riuscirebbero a superare lo scontro fra due colossi. Inoltre, la fotografia dell’emiciclo falserebbe una realtà ben più varia. E che dire del sistema con ballottaggio? Quello che antepone il voto «di testa» al voto «di cuore»? Interessante, ma la doppia chiamata alle urne costa. E i partiti di centrodestra non sarebbero molto gratificati perché i loro elettori difficilmente si recherebbero in massa una seconda volta a votare. E i partiti forti a livello territoriale come la Lega? Gioverebbero dalla ripartizione in collegi uninominali, ma sarebbero notevolmente indeboliti in caso di elevate soglie di sbarramento nazionali. Insomma, ogni sistema ha i suoi detrattori naturali.
Di questa caratteristica bisogna prenderne amaramente atto: non esiste una legge elettorale perfetta. Non c’è anche perché nessuno ha mai individuato un automatismo così efficace da ridurre allo zero lo spreco di voti. Per spreco di voti, intendiamoci, si può pensare ai voti dati a quelle formazioni che non riusciranno mai ad ottenere un seggio, ad esempio perché non hanno superato le soglie di rappresentatività. Ma spreco di voti può essere anche quell’insieme di voti che non viene conteggiato ai fini dell’assegnazione dei seggi perché «eccedenti». Senza addentrarsi in tecnicismi, basti pensare che per conquistare un seggio serve una quantità n di voti, variabile a seconda dell’affluenza alle urne e di altre circostanze. Se un certo partito ottiene n+1, quel voto in più sarà stato «inutile» ai fini dell’assegnazione del seggio. A questa problematica tentano di sopperire le varie metodologie di ripartizione dei resti e dei quozienti (in Italia la legge Calderoli sposa per la Camera dei Deputati il «metodo Hare»), ma, appunto, nessuna di queste riesce a rispecchiare con fedeltà l’orientamento espresso dai cittadini nella chiamata alle urne. Di fronte al dilemma, dunque, la reazione più immediata sarebbe: perché non scegliere il sistema più fedele di tutti? La risposta è: non conviene. E il passaggio intermedio la dice lunga. I vari modelli elettorali non a caso sono chiamati secondo il nome del Paese che li ha adottati. C’è quello spagnolo, quello francese, quello inglese e, il più gettonato, quello tedesco.
Solo i tecnici parlano di maggioritario, proporzionale o a doppio turno, ma i modelli puri nel diritto positivo non esistono perché ognuno di questi ha le sue particolarità, quelle che in gergo si chiamano «razionalizzazioni», e che servono a plasmare le asettiche formule matematiche sul multiforme substrato sociale. Il nostro sistema elettorale, coi suoi pro e contro, è passato alla storia con l’epiteto di «Porcellum». Anche questa, per quanto tendenzialmente giornalistica, è una manifestazione della nostra sensibilità civile e giuridica. Le illazioni che vengono fatte quotidianamente devono, perciò, essere valutate alla luce delle considerazioni suesposte. Scegliere un sistema piuttosto che un altro è importante per dare un volto nuovo al nostro Paese.
E se Alfano si è seduto al tavolo del dialogo con Bersani non è perché vuole fare un grande inciucio o una grosse koalition. L’obiettivo vero è la preservazione di ciò che si voleva ottenere con il tanto vituperato premio di maggioranza del Porcellum: un sistema politico bipolare (bipartitico è un’utopia), sottratto dai fuochi incrociati dei vari Di Pietro, Bossi, Fini o Casini di turno.
Il vero obiettivo della nota congiunta di Pd e Pdl, allora, è questo: una legge elettorale capace di produrre una solida maggioranza a fronte di una solida opposizione, che sostituisca la patologica litigiosità condominiale delle nostre assemblee con una costruttiva dialettica politica. L’unica speranza, se questi progetti andranno in porto, è che la forma sia davvero in grado di modificare la sostanza.
Ylenia Citino