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Perché i miti ereditano la Terra?

Creato il 08 marzo 2014 da Annaaprea55

Mi sono sempre chiesta per quale motivo, nelle Beatitudini, Gesù abbia stabilito di assegnare la Terra ai miti. Da dove nasce questa decisione? Con quale criterio ha operato la scelta? Perché dare ai miti la Terra e non il Regno dei cieli?

Perché i miti ereditano la Terra?

Ho avuto la fortuna, nella mia vita, di conoscere un mite: un amico che frequento da anni con il quale mi capita di parlare a lungo. Non è un remissivo il mio amico, né un rassegnato, né un rinunciatario. È un uomo semplicemente mite, forte di una qualità tanto inafferrabile che non so bene da dove venga…
E io che mite non sono, lo ammiro.

Cosa distingue un mite da un remissivo? Mitezza è parola intraducibile in molte lingue, solo noi italiani abbiamo ereditato l’etimologia latina, mitem, che significa tenero, maturo.

Per dire mite i francesi usano doux, dolce, riferiscono il termine a colui che possiede la virtù della dolcezza. Ma stando alla radice latina, mitem è maturo: la mitezza è un frutto, un esito.

IL MITE ABITA LA TERRA

Un lungo e interessante ragionamento su questa faccenda lo ha fatto Norberto Nobbio nel suo Elogio della mitezza, libro in cui il filosofo annuncia il suo studio con queste splendide parole: «Amo le persone miti perché sono quelle che rendono più abitabile questa “aiuola“, tanto da farmi pensare che la città ideale sia quella in cui la gentilezza del costumi sia diventata una pratica universale».

Nella definire della mitezza Bobbio procede per esclusioni successive. Il mite non è un remissivo: il remissivo accetta la logica della gara ma è uno che a un certo punto vi rinuncia per debolezza o per paura, per impotenza o prescienza, in pratica il remissivo è un superstite, un disilluso.
Tutt’altra cosa fa il mite che, se rinuncia alla lotta, lo fa solo per un senso di distacco dai beni che accendono la cupidigia, il mite  non apre mai il fuoco ma, se lo aprono gli altri, non si lascia bruciare.

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Non dobbiamo neppure confondere, dice ancora Bobbio, il mite con il mansueto, quest’ultimo sceglie per intima sapienza la passività. Vivi e lascia vivere.

La mansuetudine è qualità passiva, la mitezza è attiva. La mansuetudine è  virtù personale, la mitezza è sociale. Questo dice Bobbio che nel suo saggio dialoga con un altro filosofo, Carlo Mazzantini che, a proposito della mitezza, apre un ulteriore varco: “la mitezza” sostiene Mazzantini ” è la suprema potenza: lasciar essere l’altro quello che è”. 

UNA VIRTÚ CHE SI APPRENDE 

In questi tempi di collera e di volgarità, la mitezza esige di abitare la nostra “aiuola”. Dell’argomento, che tanto mi interessa, si è occupata di recente  Barbara Spinelli, in un suo bellissimo libro, Il soffio del mite.

La mitezza, spiega Barbara Spinelli, è un dover essere, una specie di metodo: miti si diventa per esperimenti ed errori: è una virtù che s’impara, e sboccia in chi umilmente cerca espedienti. Sì, espedienti, una parola che, nella sua etimologia, è un “estrarre i piedi dalle avversità”. Dunque miti non si nasce (e questo è consolante), miti si diventa dopo il corpo a corpo con i conflitti e con il dolore.

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POTENZA DELL’ESSERE

In questo senso la mitezza è una potenza piena, frutto di un’ attività e di una ricerca. Un po’ come Gandhi che parlava di “non violenza cosciente dalla propria forza”.
Se non è un politico vero e proprio, il mite potrebbe essere, dice Barbara Spinelli, un prepolitico, uno che comunica alla politica la sua diversità,  potrebbe essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore.

Il mite non scende direttamente in politica – se intendiamo la politica come lotta e gara – ma nella politica ‘alta’ sì…il mite entra pienamente. Come? “Bonifica la terra da cui germoglierà il contratto” e anche se non partecipa alla contesa come antagonista o competitore conosce i meccanismi della lotta. Proprio  come Gandhi, ha quella potenza di fuoco interiore per condurla a termine.

Mite per eccellenza è Gesù e chi conosce la sua storia sa che non è stato un uomo né docile, né conformista, né remissivo:

  • ha abbandonato i genitori che lo hanno cercano disperati in lungo e in largo;
  • si è rifiutato di far valere i privilegi legati al suo appartenere al popolo eletto;
  • ha cacciato in malo modo i mercanti dal Tempio;
  • si è rivoltato contro ciò che ostacolava il suo cammino di Verità;
  • per finire, nell’ultima cena, ha detto ai discepoli “chi è il più grande tra voi si faccia come il più piccolo e chi governa come colui che serve”.
Giotto (1226-1337), La Cena in casa del Fariseo

Giotto (1226-1337), La Cena in casa del Fariseo

Gesù dunque opera nella polis ma lo fa nell’orizzonte della profezia più che della politica, trascorre la vita sulla Terra sapendo di essere un cittadino del cielo, Gesù è nella carne ma non vive secondo la carne

Torniamo dunque all’interrogativo iniziale: perché i miti erediteranno la Terra? Se il mite è un prepolitico uno che marca la differenza e non propriamente un politico, allora eredita la Terra non nel senso che se ne impossessa ma nel senso che la eredita.

Ereditare in greco vuol dire abitare il vuoto, il deserto. Il mite eredita perché entra nel vuoto, “sosta nella fessura aperta del mondo” scrive Barbara Spinelli. Cosa significa?  Quando il mondo apre una fessura?
La risposta è una: con la morte. Diventiamo miti solo quando abbiamo attraversato il dolore di una morte, e abbiamo imparato a preservare quel vuoto.

RISPETTARE LA MORTE

“Nulla si eredita se non indugiamo pieni di discrezione davanti al’impronta incavata che era colma della persona amata”. Ne consegue che ereditiamo quando sappiamo allearci con chi è partito via prima di noi, quando siamo venuti a contatto con la morte e da quel vuoto siamo ripartiti, solo allora ereditiamo ed è solo qui che si fa strada in noi la mitezza.
In questo senso anche battersi a tutti i costi per la sopravvivenza del malato, non è cosa che abbia a che vedere con la mitezza,

Le passioni che la morte di una persona cara scatena, lo sappiamo bene, sono banchi di prova,  a cominciare dalla collera che il sopravvissuto prova adirandosi e reclamando la persona che è andata o sta andando.

L’uomo mite soffre nel guardare la morte certo…ma non ha alcuna temerarietà nei suoi confronti perché non possiede la gradassa spavalderia di chi presume di sapere che nulla c’è e nulla ci sarà oltre il corpo.
La morte collauda il nostro guardare quella fessura che si apre nel mondo. Ereditiamo la Terra perché rispettosi, da qui, guardiamo lo strappo da cui si insinua la morte. 

CON I PIEDI SULLA TERRA

Insomma il mite è l’unico che sa – intimamente sa – che deve rispettare la Terra perché, come dicevano i Sioux “non è la Terra che appartiene all’uomo ma l’uomo alla Terra”, il mite sa che la Terra “non la ereditiamo dai nostri padri, ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli”. Il mite  rispetta “l’aiuola” perché è un preveggente, è uno che cammina e cammina poggiando i piedi sulla terra, con dolcezza, spostando quelli di chi vuole calpestarglieli.

 COME CHARLOT, BAMBINO INDIFESO

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Come Charlot, altra incarnazione della mitezza. Lo ricordate il Monello? Ricordate in che modo Charlot si avventa su chi vuole toccargli il piccolo che ha scelto di custodire? Soffre, subisce eppure si fa forza, fugge sui tetti, rincorre il furgone, si avventa in una corsa furibonda sui tetti  e, quando si trova faccia a faccia col poliziotto, cosa fa? Lo atterrisce con un semplice scalpiticcio di piedi sul selciato.
Non un urto frontale ma la suprema potenza della mitezza.



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