Il figlio di Saul. Vincitore del Grand Prix della Giuria allo scorso Festival di Cannes e del Golden Globe, è nella lista dei candidati all’Oscar come miglior film straniero.
Siamo direttamente dentro l’inferno, ad Auschwitz. Un padre cerca una degna sepoltura per il figlio (che sia il suo non importa, è comunque “il figlio di Saul”, come tale proprio e, insieme, di tutti) mentre pulisce, rassetta, resiste. Attende l’esalazione dell’ultimo respiro di quel prossimo che potrebbe, ogni istante, essere lui stesso: porta via ciò che resta delle camere a gas. Uomini che cancellano tracce di altri uomini, per sopravvivere. Uomini che cancellano tracce di loro stessi, per (r)esistere.
Il merito del regista, già dai primi minuti, sta nel non raccontarci mai la storia infarcendola di retorica – come hanno il difetto di fare molti film sul tema – ma facendocela vivere direttamente attraverso gli occhi, le mani, i nervi del protagonista, secondo scelte visive e sonore ben precise e accurate (soggettive e primi piani schiaccianti, urla agghiaccianti dietro la soglia delle camere a gas).
Nessuna parola di troppo, bastano le immagini a dire tutto.
I personaggi del film sono i Sommersi e i salvati che racconta Primo Levi. Ma siamo anche noi che guardiamo, che inermi respiriamo, partecipiamo, attendiamo l’uscita dall’inferno. È stato detto: “Non ti farai nessuna immagine della Shoah”: eppure lo stesso Claude Lanzmann (autore del documentario Shoah) ha definito il film “l’anti Schindler’s List”, e il filosofo Georges Didi-Huberman lo ha indicato come un’opera d’arte in grado di “far uscire dal buio”.
Perché deve vincere l’Oscar come miglior film straniero? Perché è un’opera prima, di un abile regista neanche quarantenne che ha già un suo stile maturo, l’ungherese László Nemes. Perché obbliga lo spettatore a una partecipazione emotiva e non lascia margini a distrazioni. Perché racconta la Shoah come pretesto narrativo per raccontare di cosa sia capace l’essere umano a condizioni estreme e inimmaginabili. Perché ci spinge a considerare “se questo è un uomo”, a ricordare l’indicibile e l’impossibile che tuttavia, è accaduto. Soprattutto, perché è un film difficile, coraggioso, intenso, memorabile. E perché usciti dalla sala non sarete più gli stessi.
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