Per gentile concessione dell’Autore riportiamo la traduzione italiana dell’intervista che Carlos Pereyra Mele, geopolitologo e docente all’Università della Patagonia, membro del Comitato Scientifico di “Geopolitica”, ha rilasciato alla rivista argentina “Disenso” lo scorso 23 aprile.
Disenso: Nelle ultime settimane si sono moltiplicati gli incontri e le dichiarazioni tra i governi di Israele e degli Stati Uniti in relazione al programma nucleare iraniano. Sebbene l’Iran abbia messo in agenda già dal 1995 la necessità di consolidare la produzione di energia nucleare, fu soltanto con la vittoria di Mahmud Ahmadinejad nel 2005 che si susseguirono con una certa temerarietà e periodicità le minacce di guerra da parte degli Stati Uniti ed Israele, in aggiunta ad una serie di sanzioni promosse da costoro all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Di fronte a questo scenario, per quale ragione un Iran nucleare secondo lei infastidisce gli Stati Uniti, Israele e i loro alleati, e in che senso l’Iran rappresenta una minaccia per loro? D’altra parte, perché avendo a disposizione sufficiente potenza di fuoco, tecnologia e risorse finanziarie, quei paesi si vedono impossibilitati a portare a compimento un attacco militare?
Di fronte a ciò, e visto che la Rivoluzione Islamica di Khomeini non si indebolì nonostante la guerra con l’Iraq di Saddam Hussein (in cui grazie al supporto delle potenze occidentali l’ex dittatore iracheno poté attaccare con gas letali un Iran che comunque sopravvisse, lezione che i nuovi aggressori devono tenere presente), gli Stati Uniti pianificano attentati contro l’Iran già da molti anni. In questo senso risulta rivelatore il recente rapporto di Democracy Now che spiega come si preparino “fedayin” negli Stati Uniti per compiere omicidi selettivi di specialisti del nucleare iraniani. Si gioca anche alla destabilizzazione dell’Iran attraverso delle pseudo-rivoluzioni che nascono su piattaforme come Facebook o Twitter, che però il governo iraniano è riuscito a soffocare.
Il discorso ossessivo dei media occidentali riguardo la possibilità che l’Iran arrivi alla creazione di un dispositivo nucleare con fini bellici, argomento che è stato negato fino alla nausea dall’Iran e dagli stessi organismi dell’intelligence occidentale, rientra nel discorso sostenuto dai ‘falchi’ statunitensi ed israeliani per attaccare l’Iran, come pure dalle petro-monarchie della penisola araba per impedire che l’Iran prenda il controllo geopolitico della regione e destabilizzi così i suoi regimi corrotti, che invece contano sull’alleanza strategica con Londra e Washington.
Per quel che riguarda ciò che lei correttamente osservava, la superiorità militare e tecnologica degli Stati Uniti, della NATO e di Israele nella zona è formidabile, e in teoria spianerebbe la strada per l’intervento militare, ma la miglior spiegazione del perché ancora non hanno attaccato l’ha data l’ex capo del Mossad: “Un attacco all’Iran senza aver prima esplorato tutte le opzioni possibili non è il modo corretto di fare le cose”. “[…] Bombardare l’Iran è la cosa più stupida che abbia ascoltato”. Questa è la valutazione dell’ex capo del Mossad, Meir Dagan, direttore dell’intelligence di Israele, equiparabile al capo della CIA. Bisogna capire ciò che intende Dagan, nel senso che il primo a destabilizzarsi nell’ipotesi di una guerra sarebbe il Golfo Persico con le sue monarchie petrolifere tiranniche e corrotte che gli USA sostengono. Inoltre, dal momento che non si contempla l’occupazione del territorio iraniano, la nazione ferita nel suo orgoglio sì che cercherebbe di procurarsi l’arma nucleare, per il momento non desiderata dal regime, per cui l’ipotetico attacco servirebbe soltanto a ritardare lo sviluppo del nucleare; allo stesso tempo, però, l’Iran cercherebbe di consolidare alleanze più profonde con la Russia e la Cina, ed allora l’Occidente perderebbe definitivamente il controllo della regione centrale dell’Eurasia, spazio vitale per il controllo del Nuovo Ordine Mondiale.
Il ruolo della Cina nella politica internazionale è cresciuto d’importanza nell’ultimo decennio. La sua partecipazione a diversi forum e poli di potere è motivo di sconcerto per più di un osservatore. Si è soliti riferirsi alla Cina da diverse prospettive, come ‘Cimerica’ e BRICS, senza dimenticare la sua partecipazione al Consiglio di Sicurezza, alla OMC, il suo ruolo di garante della sicurezza nella Corea del Nord, il suo recente incontro diplomatico con la Russia – paese con cui condivide la frontiera più estesa del mondo e con cui presenta situazioni demografiche asimmetriche – e le sue relazioni con l’Iran, così come la sua relazione finanziaria e commerciale con gli Stati Uniti e l’Europa. Può ipotizzare qual è oggi la posizione geopolitica della Cina? Nella sua cartella geopolitica mondiale, la Cina ha definito quali sono i suoi nemici e quali i suoi amici, o sta guadagnando tempo mentre sviluppa il suo sistema nazionale e stabilizza il fronte interno, ancora oggi fragile e frammentato? In ultimo, che opinione si è fatto dell’intenzione di Henry Kissinger di creare una ‘Comunità del Pacifico’, nel migliore stile NATO al fine di ingurgitare gli interessi regionali della Cina in quelli statunitensi?
Il primo fattore da prendere in considerazione è la cultura millenaria della Cina, che non misura il tempo in secoli ma in millenni, per cui le interpretazioni degli occidentali sulla Cina sono sempre errate per ‘mancanze’ culturali. Il ruolo di potenziamento economico della Cina ed i suoi risultati, presto o tardi si scontreranno con gli interessi occidentali. In questo senso ci sono esperti che pensano che la Cina conquisterà presto il primato economico. Come
segnalano gli strateghi statunitensi, la Cina non si comporterà come una potenza aggressiva, ma per soddisfare le sue necessità basilari di risorse e materie prime si scontrerà con i poteri stabiliti che già oggi stanno attraversando un periodo di decadenza. Per la sua geopolitica, l’importante è assicurarsi il suo ‘continentalismo’, da cui il Trattato di Shanghai, che le ha permesso si realizzare un blocco che è passato rapidamente dall’essere di natura economica a militare, oltre ai recenti trattati strategici con la Russia, senza perdere di vista la sua presenza in Africa e in America del Sud e che, tutto insieme, cerca di ostacolare il ‘cerchio geopolitico’ della nuova dottrina militare che il Presidente Barak Obama ha presentato a gennaio del 2012, con la consulenza di Henry Kissinger, al fine di concentrarsi in Asia. Però ripeto, la Cina non è l’Occidente, dove tutto si misura con l’idea del consumo; lì la triade occidentale (USA, UE e Giappone) ha un altro tallone d’Achille, per cui il risveglio del drago ribalta anni di umiliazioni ad opera di occidentali e giapponesi difficili da dimenticare.Da un anno assistiamo ad una serie di conflitti che i media hanno soprannominato ‘primavera araba’. Sebbene al momento gran parte delle rivendicazioni sembrano giuste e ragionevoli, non si può fare a meno di rilevare il lato confuso e sospetto che tinge il processo in questione, poiché si vede ogni tipo di ‘ribelli’ agire in diverse forme rivoluzionarie ma sempre in sintonia con i discorsi e gli interessi che quotidianamente manifestano il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, la Troika europea, l’ONU, la NATO e il Consiglio di Cooperazione degli Stati Arabi del Golfo. In questo contesto ci interessa sapere cosa ne pensa della cosiddetta ‘primavera araba’ e degli avvenimenti che si stanno verificando in Siria.
La cosiddetta ‘primavera araba’ non è che un nuovo esperimento di manipolazione politica e sociale di masse che per anni sono state soggiogate da regimi politici dittatoriali quasi feudali. Questo modello di manipolazione, che si applicò a quelle nazioni che un tempo erano parte dell’URSS, aveva funzionato efficacemente fino ad un certo punto con le cosiddette ‘rivoluzioni colorate’. Con il passare del tempo possiamo concludere che questi movimenti pseudo rivoluzionari manovrati dalla superpotenza vincitrice nel 1991 furono solo gli strumenti per imporre a questi popoli il Nuovo Ordine Mondiale, o meglio, il Neoliberalismo. Lo schema si ripete nel Maghreb: alla ‘sorpresa’ per la reazione popolare contro il tiranno Ben Ali a Tunisi ha fatto seguito la rivolta dei giovani egiziani, tutti manipolati dalle grandi catene mediatiche che, al giorno d’oggi, hanno già dimostrato essere il braccio più importante della cosiddetta ‘guerra a bassa intensità’ iniziata dall’Occidente. Ad oggi già si possono vedere le conseguenze di queste due ‘rivoluzioni’: i militari continuano a detenere il potere e le repressioni contro il popolo che voleva una trasformazione continuano ad essere le stesse dell’inizio della rivolta, però adesso senza copertura mediatica. Altri due diversi esempi di manipolazione mediatica sono quello della Libia prima e della Siria di questi giorni. Il primo fu un chiaro e netto intervento straniero con mercenari, tra cui annoverare al-Qaeda in qualità di braccio armato islamico della CIA, e le forze speciali della NATO e del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo), in primis Qatar ed Arabia Saudita, che strangolarono il Paese con il miglior livello di vita di tutta l’Africa, trasformandolo in un territorio dove bande armate gestiscono in maniera indipendente dal CNT (Consiglio Nazionale di Transizione) i propri accordi economici con i Paesi della NATO. In sintesi, si continua quotidianamente ad operare massacri, però ora c’è un muro di silenzio dell’informazione che impedisce di conoscere questa situazione. Con la Siria si è cercato di utilizzare lo stesso procedimento: pseudo oppositori armati in Qatar, Turchia e Giordania che entrano nel Paese equipaggiati dalla NATO per commettere crimini contro la popolazione civile, ma in questo caso incontrano un esercito più solido e nient’affatto tribale come quello libico; però, il veto di Cina e Russia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU – disperazione degli “Amici della Siria Libera” – non ha permesso l’invasione militare né i ‘chirurgici’ attacchi aerei della NATO, che non servono ad altro che a seminare il panico tra i civili disarmati per aprire la strada agli invasori, come si era già sperimentato nel caso libico. Russia e Cina sanno che un eventuale attacco alla Siria prelude ad un attacco all’Iran e che se si impedisce questa operazione, l’attacco alla regione persiana sarà ancora più difficile per l’Occidente.
L’analisi dello sviluppo dei diversi conflitti che la ‘primavera araba’ ha prefigurato non può prescindere dalla proliferazione di scontri che si configurano come guerre asimmetriche, né dal come questo tipo di conflitti fossero stati pienamente contemplati dalla dottrina Bush, il Patriot Act – estesa poi dall’attuale presidente Obama – esattamente come dallo Stato d’Israele, specialmente dopo la guerra contro il Libano. Al di là di giustificazioni umanitarie, l’attuale quadro giuridico non è stato concepito a misura dei conflitti che vediamo diffondersi?
L’Occidente, ovvero la Triade già citata, ha stabilito come nuova forma per le relazioni internazionali il ricorso a mezzi militari come il non plus ultra delle stesse. La diplomazia è diventata subordinata ai poteri militari e questi ultimi ai complessi tecnologico-militare-finanziari che sono, per il momento, l’unico settore dell’economia degli USA e della NATO che funziona, e a poco serve commentare le politiche di aggiustamento in Spagna, Italia, Grecia o Portogallo. L’ultimo argomento imposto è quello del supposto ‘diritto a proteggere’ che le potenze occidentali si arrogano unilateralmente, rispolverando il vecchio concetto eurocentrico di portare la civiltà ai popoli colonizzati, e per questo ricorrono all’espediente militare come strumento di ‘protezione dei popoli oppressi’. Naturalmente questo diritto della NATO a ‘proteggere’ viene esercitato soltanto su Paesi con risorse strategiche di grande importanza geopolitica per il trio.
Tutti i giorni i mezzi di comunicazione di massa bombardano con notizie riguardanti la ‘crisi economica’ europea. In alcuni momenti sembra ci siano due interpretazioni possibili dei fatti. Una che si concentra sulla crisi fiscale, invocando aggiustamenti che generino ‘fiducia’ nei mercati, e un’altra che punta il dito contro le banche, le diverse istituzioni finanziarie, la classe dirigente di certi stati europei ed accusa la ‘Troika’ di condurre un ‘colpo di stato finanziario’. Ci interessa conoscere la sua opinione in merito, così come sapere perché Lei crede che ci si sia abituati a parlare di crisi europea e non piuttosto di crisi giapponese, considerando lo tsunami che un anno fa colpì la terza economia del mondo, e dunque molto più rilevante per la finanza e il commercio mondiali rispetto all’economia greca, spagnola o portoghese.
Ciò che Lei afferma è la realtà e dimostra come un sistema mediatico iperconcentrato nelle mani di sole 5 agenzie mondiali gestisca la nostra informazione e con essa la manipolazione mediatica che si realizza nel cosiddetto Occidente. Perché non si parla del caso dell’Islanda, dove la popolazione ha messo in campo una reazione che va al di là della percussione di pentole contro il regime politico-finanziario neoliberale, destituendo i responsabili, impedendo loro di fuggire dal Paese e mandandoli a giudizio? Ciò che più risalta è che l’Islanda ha disconosciuto i diktat della ‘Troika’ (FMI, Banca Centrale Europea e Consiglio dell’Unione Europea) arrivando, ad oggi, al recupero nei principali indicatori economici. È evidente che l’agire delle grandi catene d’informazione è stato differente nei Paesi più periferici d’Europa. Nei PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna o ‘maiali’, come preferiscono chiamarli in modo peggiorativo i media anglosassoni) si stanno cambiando i vertici governativi insediando al loro posto dei personaggi per mezzo di ‘golpe finanziari’, dissolvendo i governi eletti dalle rispettive popolazioni e sostituendoli con impiegati del sistema finanziario mondiale o ‘tecnocrati’, come si suole definirli, quali Mario Monti (Italia), Lucas Papademos (Grecia) o Mario Draghi (BCE). In tutti i casi scelti senza il voto popolare ma con quello delle banche e degli organismi finanziari internazionali che oggi stanno applicando i dettami economici più ortodossi per salvare il settore.
Poche settimane fa Vladimir Putin ha vinto con più del 60 % le presidenziali in Russia. Tutti i mezzi di comunicazione, al pari di ONG finanziate da forze avverse al partito ‘Russia Unita’ fecero fronte compatto con i partiti d’opposizione – comunisti e liberali in testa – e le sedi diplomatiche di Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione Europea per screditare suddetta vittoria attraverso accuse di brogli. È opinione condivisa che Putin rappresenta un punto di svolta nella storia della Russia post-sovietica. Pochi mesi orsono, prima che la campagna elettorale cominciasse e quando era ancora Primo Ministro, Vladimir Putin annunciò ufficialmente il suo progetto di dare vita ad un’ ‘Unione Eurasiatica’ che conferisca alla Russia una posizione rilevante sullo scacchiere geopolitico mondiale. Lei che ruolo assegnerebbe alla Russia e al suo attuale governo negli avvenimenti geopolitici dei prossimi anni? Un’Unione Eurasiatica è praticabile?
Ciò che Lei asserisce riguardo il funzionamento del sistema di discredito nonché di confusione sulle elezioni in Russia ha un legame con ciò di cui stavamo parlando prima e cioè di come, attraverso i media di massa, al giorno d’oggi la chiave non sia l’informazione autentica ma la manipolazione al servizio degli interessi economici che formano il suo pacchetto azionario; tutti i media sono infatti società anonime ed in più concentrate (giornali, riviste, TV, telefonia cellulare ed Internet), e dove è in gioco il potere delle loro imprese portano a termine un lavoro prima di confusione e poi di manipolazione, cercando di cambiare i risultati che a loro non piacciono.Credo che la presidenza di Vladimir Putin dia inizio ad una nuova fase di consolidamento del rinnovato ruolo di potenza non più regionale ma tornato ad essere globale. Le sue recenti dichiarazioni di voler predisporre un gigantesco apparato militare per mettere la Russia in testa in tutti gli ambiti dimostra la proiezione geopolitica del nuovo ruolo russo in Eurasia. Nella stessa direzione vanno gli accordi di trasferimento della tecnologia aerospaziale e militare stretti con la Cina; parafrasando Henry Kissinger possiamo dire: “Nella direzione in cui andranno Cina e Russia nei prossimi anni andrà l’Asia” e ciò determinerà un nuovo scenario internazionale multipolare di un Nuovo Ordine; però, bisogna dirlo, questo metterà in pericolo la pace mondiale dal momento che la Triade – Stati Uniti, Europa e Giappone – sicuramente reagirà per contrastare questo Nuovo Ordine, che rappresenta il suo declino dopo 500 anni di dominio planetario assoluto. Perciò il XXI secolo non sarà un secolo pacifico.
Le strade dell’integrazione regionale sono tortuose. Anno dopo anno un’infinità di dichiarazioni, annunci, riunioni e vertici sembrano prospettare definitivamente la necessaria integrazione tra popoli fratelli; mancano però statisti che posseggano la sufficiente autorità per concepire un’agenda genuina che produca fatti e non parole. La UNASUR, che sembra essere il cammino più idoneo, tuttavia non propone con chiarezza Politiche di Stato che trascendano i governi di turno con progetti e compromessi politici di ampio respiro. Cosa serve per concretizzare l’unione regionale? È produttiva la proliferazione dei diversi fora di integrazione che operano contemporaneamente, quale per esempio quello della CELAC – Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici?
La prima cosa da tenere presente è che la situazione mondiale attuale è inedita se si fa riferimento agli ultimi 10 anni. Nel 2001 sembrava che la superiorità assoluta degli Stati Uniti – ed il potere conseguente – fosse impossibile da sovvertire, che fosse la ‘fine della storia’, così come lo annunciavano i suoi sponsorizzatori. Adesso, dopo appena 12 anni, possiamo affermare che l’idea ‘di un secolo americano’ che avevano prefigurato i think tank nordamericani sin dagli anni ’80 e ’90 con il fulcro incentrato sull’unipolarismo, è diventata insostenibile anche per i suoi stessi teorizzatori. In appena 12 anni si è passati ad un mondo multipolare in cui le potenze emergenti, i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), hanno interrotto questa egemonia ed hanno cominciato ad affermare l’idea dei nuovi blocchi continentali, che sono la tappa successiva a quella degli Stati-Nazione, e che diventano la nuova base del sistema. Da quest’ottica è possibile comprendere ciò che succede al giorno d’oggi, in particolare in Sudamerica; soltanto in un’altra occasione abbiamo vissuto una situazione simile ed è stato alla fine della Seconda Guerra Mondiale quando l’America del Sud ha cercato di porre in essere degli accordi di integrazione basati sul ‘ABC’ (Argentina, Brasile e Cile) durante i governi di Perón, Vargas e Ibáñez del Campo, ostacolata però dalle azioni degli Stati Uniti. Oggi la storia torna a darci una seconda opportunità di rompere la ‘balcanizzazione’ che ha imposto il modello neocoloniale inglese prima, e gli Stati Uniti dopo, con la loro idea di ‘cortile posteriore’. L’apparizione di una potenza emergente come il Brasile, che oggi è la locomotiva economica della regione oltre ad essere la 6° economia mondiale, e che dal Mercosur, con tutte le difficoltà del caso, cerca di creare uno spazio regionale allargato che si consolida con la UNASUR, permette, insieme alla presenza nella regione di nuovi importanti soci commerciali quali la Cina, l’India e la Russia, lo spostamento della relazione di dipendenza economica, e per tanto politica, dagli Stati Uniti. Tutto ciò ci porta a pensare che ci troviamo davanti ad un nuovo periodo di reale integrazione e potenziamento del subcontinente che va al di là degli stessi dirigenti e delle loro posizioni ideologiche.
I forum nascono o si annullano in base al momento storico. Siamo alle soglie di un nuovo ‘Vertice delle Americhe’ che certamente non avrà l’importanza che ebbe in passato, e la presenza degli Stati Uniti e dei loro alleati verrà messa in discussione, situazione questa che sembrava impossibile soltanto pochi anni fa, per tutto il linguaggio diplomatico che si possa utilizzare. Un foro che invece tende a languire è il ‘Vertice Iberoamericano’, poiché il ruolo di Spagna e Portogallo, che erano i punti di accesso e di presa sulle imprese pubbliche privatizzate dal neoliberismo in Sudamerica, non è più utile alla Triade dal momento che questi paesi versano in una crisi finanziaria gravissima e quindi non hanno niente da offrire ai paesi iberoamericani.
Il foro della UNASUR invece va sviluppandosi positivamente per gli interessi regionali, ed ha ottenuto diversi risultati: evitare la disgregazione della Bolivia con il separatismo camba, ed ha evitato un conflitto tra Ecuador, Colombia e Venezuela quando la Colombia bombardò la parte del territorio ecuadoriano in cui si trovavano membri delle FARC. Dall’altra parte, si amplia l’integrazione stradale di tutta l’America del Sud, collegando regioni prima separate e consentendo la realizzazione di passi bi-oceanici attraverso cui si può giungere ai mercati dell’Asia, dove si trova la nuova economia mondiale. Inoltre si sta potenziando il sistema di difesa regionale con il ‘Consiglio di Difesa Sudamericano’ per evitare conflitti nell’area, il tutto senza la ingerenza e la censura degli Stati Uniti. Ci troviamo nel mezzo di una trasformazione realmente radicale che, quando si sarà definitivamente compiuta, in particolare per l’asse Argentina – Brasile in quanto nucleo forte della stessa, ci farà vivere una nuova storia iberoamericana.
Per concludere, volendo chiudere un’intervista per la quale siamo molto grati e che crediamo sarà molto utile per i nostri lettori, vorremmo conoscere la Sua opinione riguardo il dibattito nato nelle ultime settimane nel nostro paese intorno alla questione delle Malvine. Quale crede che sia il valore simbolico e strategico delle Isole perché sia oggetto di contendere tra Regno Unito e Argentina, e quali dovrebbero essere gli argomenti per dare concretezza al rifiuto ad essere un enclave coloniale quale sono attualmente le isole Falkland, tenendo presente la propensione di certi gruppi a riconoscere i kelpers come soggetti di diritto e non come coloni di una potenza nemica?
Il dibattito circa le Isole Malvine non è semplicemente un litigio bilaterale tra Argentina e Regno Unito, poiché un enclave coloniale con base militare della NATO mette a rischio la sicurezza del continente sudamericano e il controllo del passo bi-oceanico che collega Pacifico del Sud e Atlantico del Sud e viceversa. Inoltre interessa la proiezione del nostro Paese verso l’Antartide, e di conseguenza di tutto il continente nel suo complesso. Se a ciò si aggiunge che l’erede della corona inglese, simbolo dello Stato anglosassone, sta portando avanti esercitazioni militari nell’arcipelago malvino – chiara dimostrazione dell’interesse britannico per la zona – a quella strategica bisogna sommare l’importanza economica (alimenti, minerali ecc.).
Un altro tema non secondario è che abbiamo il differendo maggiore in relazione ai possedimenti territoriali: non c’è solo il tema delle Malvine, ma anche tutti gli arcipelaghi dell’Atlantico del Sud (Georgia del Sud e Sandwich del Sud) più le Orcadas e per tanto, in base alla CONVEMAR (Convenzione Navale delle Nazioni Unite sul Diritto di Mare), abbiamo una disputa con la Gran Bretagna per più di 3.000.000 kmq di mare (la Pampa sommersa, come efficacemente è stata soprannominata). La Gran Bretagna ha separato con un atto unilaterale la questione delle Malvine da quella degli altri arcipelaghi, poiché nella Georgia del Sud e nelle Sandwich non v’è popolazione ma soltanto basi militari e scientifiche della potenza coloniale, e lì dunque lo pseudo – argomento dell’autodeterminazione del popolo non sussiste, elemento che mi porta a dire qualcosa in proposito. In primo luogo, non esistono generazioni di popolazione inglese che possano considerarsi originari del luogo, ma soltanto come coloni portati dalla corona britannica in un territorio usurpato con la forza, dal momento che non sono stati riconosciuti come cittadini britannici per i 150 anni che vanno dal 1833 al 1983. Solo allora è stata concessa la cittadinanza inglese ad alcuni tra i cosiddetti Kelpers e dunque, al netto delle forze militari e dei lavoratori temporanei, la popolazione che abita il territorio insulare riconosciuta come britannica è di 1 a 3, per cui la preoccupazione di alcuni dei sedicenti intellettuali argentini per i diritti di questa popolazione è davvero carente di ogni fondamento logico.
(Traduzione dallo spagnolo di Paola Saliola)