Dalla sua breve tappa in Turkmenistan di ritorno dal G20 australiano, Matteo Renzi porta a casa tutta una serie di accordi bilaterali che non potranno non giovare al nostro export. Renzi è a Palazzo Chigi da meno di un anno, eppure ha già messo nel carniere un rafforzamento dei rapporti economici con alcuni Stati nati dalla dissoluzione dell’Urss: il Kazakhstan, l’Azerbaijan e ora il Turkmenistan hanno in corso con l’Italia importanti trattati commerciali in diversi settori, il che vuol dire possibilità di lavoro e di occupazione per le nostre aziende che hanno rapporti economici in quelle aree. Una boccata d’ossigeno per quel made in Italy assai gradito nello spazio ex sovietico, che sta patendo non poco il contraccolpo della guerra commerciale tra l’Ue e il Cremlino: quello russo è uno dei principali mercati di sbocco per le nostre aziende, tanto che la stessa Confindustria ha aperto da alcuni anni una sede a Mosca proprio per sostenere in loco la diffusione del prodotto italiano.
Pur consapevole del rischio (poi concretizzatosi) di ritorsioni russe anche contro il made in Italy, l’esecutivo non ha battuto ciglio quando l’Europa gli ha chiesto di approvare sanzioni contro Putin per l’annessione della Crimea e per l’ingerenza russa nel conflitto ucraino: il Cremlino doveva essere punito, costi quel che costi. E pazienza se il Sistema-Italia ci rimette qualche miliardo di euro in mancate esportazioni: la libertà e i diritti dell’uomo sono valori che non possono essere ridotti a mero mercimonio. Tutto giusto. Proprio per questo motivo, sarebbe da lodare il coraggio politico di Matteo Renzi, se non fosse per un piccolo particolare: non sempre il governo italiano utilizza questo approccio nei confronti di quei leader politici dell’area ex Urss liberisti in economia, ma per nulla liberali in politica.
Partiamo proprio dall’ultimo, che pochi giorni fa con il nostro premier ha siglato tutta una serie di accordi in campo energetico: il presidente turkmeno Gurbanguly Berdyhuammedov, signore e padrone del Turkmenistan, piccola repubblica affacciata su quel colossale giacimento di idrocarburi che è il Mar Caspio. Oggetto di un massiccio culto della personalità, nominato Presidente “a vita” dopo la morte del “padre della patria” Njazov, dal 2007 governa un Paese dove di fatto vige il monopartitismo. Politico dal piglio autoritario, ha però un debole per Jennifer Lopez, della quale l’anno scorso gli venne regalato un sensualissimo show canoro in occasione del suo 56esimo compleanno: secondo la Human Rights Foundation, fu una sorta di “regalo di rappresentanza” (per non usare il termine “tangente”) da parte del colosso petrolifero cinese China National Petroleum Corporation, interessato ad aggiudicarsi appetitose concessioni energetiche nel paese ex sovietico.
Dall’altro lato del Mar Caspio troviamo un altro Paese amico dell’Italia: è l’Azerbaijan, con il quale i rapporti economici hanno assunto un carattere strategico da quando l’Italia ha firmato il trattato per la costruzione del Trans Adriatic Pipeline (TAP), il segmento finale del colossale gasdotto Corridoio Southern Gas, che a partire dal 2020 trasporterà il gas azero in Europa. Nel progetto il nostro Paese ha un ruolo di prim’ordine: con il TAP l’Italia diventerà una sorta di hub del gas proveniente dall’Azerbaijan, che giunto nel terminal di San Foca, vicino Lecce, verrà poi smistato in altre nazioni dell’Europa Occidentale tramite Snam-Retegas.
Ma la nascita dei No-TAP, un movimento che si oppone alla costruzione dell’opera guidato da sindaci e associazioni ambientaliste del Salento, ha messo Palazzo Chigi in difficoltà con i partner azeri. Tanto che lo scorso settembre il viceministro allo Sviluppo Economico Claudio De Vincenti, a Baku per la posa della prima pietra del Corridoio Southern Gas, ha voluto pubblicamente rassicurare il governo azero che l’Italia avrebbe rispettato i propri impegni. Del resto il TAP può rappresentare una svolta nella politica di approvvigionamento energetico italiana, ovvero il taglio del cordone ombelicale che lega il nostro Paese al gas russo, che Mosca tra pochi anni pomperà in Europa grazie al costruendo gasdotto South Stream, in parte finanziato anche dall’Eni: l’irrigidimento dei rapporti tra l’Ue e la Russia sullo sfondo della crisi ucraina impone un’attenta revisione del nostro rapporto con le fornitura energetica russa, alla quale il gas azero può essere una valida alternativa. Putin del resto ha costruito la sua forza politica usando la clava energetica per mettere in riga l’Occidente: quale occasione migliore per disarmare l’arrogante autocrate del Cremlino?
Peccato che così facendo si finisca per rafforzarne un altro, di autocrate, che ha i connotati del presidente azero Ilham Aliev, rampollo della famiglia che dall’epoca sovietica è al potere a Baku. Da buon “monarca repubblicano”, ha ereditato nel 2003 il potere dal padre Heydar, ex burocrate del Pcus e poi fautore dell’indipendenza azera. In questi undici anni gli attivisti per i diritti civili hanno denunciato numerose violazioni in Azerbaijan: dalle elezioni-farsa alle manifestazioni di piazza messe al bando, dalla repressione nei confronti dell’opposizione alla persecuzione della stampa indipendente. Un rapporto-shock pubblicato da Human Rights Watch alla vigilia delle elezioni parlamentari del 2010 aveva denunciato numerosi episodi di violenza per mettere a tacere i giornalisti dissidenti, accusando Aliev di aver aggirato il divieto di censura, in vigore dal 1998, con nuovi stratagemmi per bloccare la diffusione di notizie scomode, come il blocco delle frequenze radiofoniche di molte emittenti estere.
«L’Italia è il nostro più grande partner commerciale e d’investimento: rappresenta il 13 per cento del fatturato totale del commercio estero del Kazakhstan e il volume totale degli investimenti italiani nella nostra economia è di 6,5 miliardi di dollari. Inoltre, l’Italia è il più grande consumatore di petrolio kazako»: con queste parole il presidente Nursultan Nazarbaev accoglieva lo scorso giugno Matteo Renzi in visita nella capitale Astana, la prima di un premier italiano dopo il pasticcio diplomatico del caso-Shalabayeva, in cui si era impelagato il governo Letta.
Dal Kazakhstan Renzi tornò in Italia con accordi soprattutto in campo energetico tra l’Eni e la compagnia energetica nazionale KazMunaj Gas, i cui operai alla fine del 2011 si erano resi protagonisti di una serie di manifestazioni di protesta per chiedere aumenti salariali e migliori condizioni lavorative: quella prima, storica forma di dissenso nel Kazakhstan indipendente, che aveva finito per bloccare il distretto petrolifero di Zhanaozen, fu repressa nel sangue dalle forze di sicurezza kazake. Di quel tragico evento non se ne sarebbe saputo nulla in Occidente, se non fosse stato per Lukpan Akhmedjarov, giornalista del giornale indipendente Uralskaja Nedelija, una delle poche voci ad aver avuto il coraggio di raccontare cosa stava succedendo a Zhanaozhen. Pochi mesi dopo, Akhmedjarov fu vittima di una misteriosa aggressione a colpi di coltello e bastoni, che lo ridusse in fin di vita.
Il Kazakhstan è ormai il cuore finanziario dell’Asia Centrale, grazie anche ad un clima economico molto favorevole al business e all’imprenditorialità, che indiscutibilmente ha avuto ripercussioni positive anche sulla qualità della vita, decisamente migliore rispetto alle altre nazioni dell’Asia ex sovietica. Questo progresso economico non ha però condizionato la vita politica: da questo punto di vista, il Paese è rimasto al 1991, anno dell’indipendenza dall’Urss. Nazarbaev è ininterrottamente al potere da allora, e alle ultime elezioni presidenziali del 2011 è stato rieletto con circa il 96 per cento dei consensi. In patria si dice che ambisca ad una carica presidenziale “a vita”: forse è per questo motivo che avrebbe commissionato ad alcuni scienziati dell’Università di Astana (a lui intitolata) la realizzazione di un elisir di lunga vita.
Ad inizio novembre il quotidiano russo Kommersant (che di certo non è tra quelli allineati al Cremlino) ha rivelato di un incontro segreto a Mosca tra una quindicina di top manager tedeschi, inclusi i rappresentanti di colossi come Siemens e Wintershall, con il vicepremier russo Shuvalov e il ministro degli Esteri Lavrov. Oggetto dell’incontro – riferisce il quotidiano – il rilancio delle relazioni commerciali russo-tedesche, seriamente compromesse dal braccio di ferro Ue-Russia. In poche parole, la Germania avrebbe cercato qualche scappatoia per aggirare le sanzioni da lei stessa votate, che ad agosto scorso le sono costate il -26,7% delle esportazioni verso il mercato russo.
L’Italia, che pure in Russia di interessi ne ha tanti, sta invece mantenendo verso Mosca una linea della fermezza inossidabile e granitica. Con buona pace delle imprese tricolori che stanno perdendo fior di quattrini: il rispetto dell’integrità dell’Ucraina non ha prezzo, che l’arrogante e prepotente Putin se lo metta bene in testa. Posizione encomiabile. Però, se fossi un imprenditore che sta patendo danni da questa guerra commerciale, mi domanderei perchè l’Italia sacrifica in Russia i propri interessi economici per la tutela di nobili valori universali, se poi va ardere questi ultimi sull’ara del profitto in Turkmenistan, Azerbaijan e Kazakhstan.