Magazine Attualità

Perché le bombe non sono caramelle dal cielo

Creato il 19 ottobre 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Aleksandra la incontriamo in una strada di Kiev, la capitale dell’Ucraina, mentre cammina con una borsa di tela sotto braccio. Dice di chiamarsi così, ma il suo nome potrebbe essere Diana, Larisa, Maria o mille altri nomi d’abitudine in questo Paese. Non le chiediamo i documenti. Vogliamo soltanto avere la sua testimonianza. Sappiamo che un suo racconto può fare la differenza e gettar luce su un aspetto spesso trascurato nelle cronache di guerra. Aleksandra è venuta a Kiev dopo che la guerra in Est Ucraina si è intensificata. Ci fa sapere che sarebbe anche rimasta a prestare servizio nell’ospedale dove lavorava, ma per il timore di mettere in pericolo i suoi figli, ha deciso un certo giorno di spostarsi verso la capitale. “Lavoravo a Sloviansk, presso l’ospedale psichiatrico” ci racconta, “Quando sentivamo i colpi dell’artiglieria, piuttosto che ripararci e pensare a noi stessi, ci precipitavamo ad assistere i malati che ci erano stati affidati”.

Aleksandra ci spiega così come quel mestiere non fosse semplice, tutt’altro che un lavoro banale, uno di quei lavori validi per tutti. “Quando sentivo che la guerra si faceva vicina, o si rompeva all’improvviso il silenzio, pregavo in me stessa di sopravvivere” ci racconta. Ci sediamo allora su una panchina lungo la strada. Le sue parole si impastano con il rumore delle macchine che intanto sfrecciano e arrestano la loro corsa ai semafori. Kiev non è una città piccola. È una metropoli di quasi 3 milioni di abitanti. Qualcuno, ci spiega Aleksandra, è venuto ad abitare nella capitale per scampare alla guerra nel Donbass. “Chi arriva da laggiù ha una propria storia da raccontare, al pari della mia che s’è vista la morte in faccia”.

La donna ci racconta così del bombardamento del maggio 2014, quando l’ospedale psichiatrico dove lavorava fu colpito in pieno dalle bombe. “Avevo capito che quella volta poteva essere l’ultima. Non avete idea di cosa significhi guardare un muro mentre si sbriciola di fronte ai propri occhi. È una scena da brivido. I mattoni e il cemento diventano sabbia”. Aleksandra è una donna sulla quarantina, capelli biondi, pelle chiara, di corporatura massiccia. Ci fa sapere che per un mestiere come il suo non si poteva avere un fisico snello, pena finire travolti da qualche paziente in preda a una crisi di nervi. “La guerra non ci aiutava certo a tenere a bada gli animi. Diverse persone si agitavano all’inverosimile non appena si sentiva il rumore di una bomba in lontananza. Era così che li portavamo in fila nei corridoi sotterranei. Li avevamo preventivamente adibiti, affinché fossero abitabili in caso di emergenza”. Aleksandra è sicura di sé. È ben consapevole che il suo servizio e quello degli altri infermieri e dei medici non può e non dev’essere dimenticato. “Anche noi abbiamo fatto la guerra” ci dice, “dietro i muri di un ospedale psichiatrico. Nessuno può far finta di niente”. Nella testimonianza di Aleksandra trapelano anche gli eventi della quotidianità, di quell’ordinario che diviene assai raro in tempo di pace.

Ci racconta di quei pomeriggi in cui leggeva ai pazienti i libri di avventura. Alle volte erano libri per ragazzi, di quelli che un adulto non leggerebbe mai. “Per loro era un modo per non pensare alla guerra che imperversava fuori dalle mura dell’ospedale” ci spiega Aleksandra. Era così che andavano in uno stanzone del pianterreno, riponevano le sedie in cerchio e Aleksandra iniziava a leggere. “Qualcuno si addormentava nell’ascoltare la mia voce che rompeva il silenzio della stanza. Altri, invece, non volevano che finissi mai di leggere. Ma ogni ospedale ha i suoi ritmi, e quello psichiatrico di Sloviansk aveva i suoi”.

Poi arrivò il maggio del 2014. Alcune bombe fioccarono improvvisamente dal cielo e non erano caramelle. L’ospedale psichiatrico di Sloviansk fu colpito in pieno. Sventrato come se fosse di cartapesta. Il rumore che si generò dallo scoppiò fu simile a un terremoto. Aleksandra non ha dubbi, quando ci dice: “Sembrava che si stesse aprendo la terra sotto i nostri piedi”. In quell’occasione la donna ricorda come diversi pazienti iniziarono ad urlare e a correre alla rinfusa. “Non c’era più un ordine. Quelle bombe avevano gettato l’ospedale nell’assoluta anarchia”. Non era più come leggere le storielle nei pomeriggi di sole. Ora era buio. Il cielo s’era fatto nero come la polvere da sparo. Aleksandra sorride ma sa bene che non potrà più dimenticare gli occhi terrorizzati di chi era rannicchiato agli angoli delle stanze. “Qualcuno si gettava addosso il materasso del proprio letto” ci racconta, “C’era chi andava ovunque per trovare un rifugio, un riparo”. Non bastavano più le caramelle dolci per dimenticare l’amaro della guerra.

Related Posts

CalcioIl corriere SportivoPrima PaginaSerie ASport & CuriositàSports

8^ di Serie A: dal sergente agli scugnizzi, top e flop

MondoNews from EarthPrima PaginaSpeciale Ucraina. Una guerra dimenticata nel cuore dell'Europa.The International Post

Editoriale. “Non potevamo identificare quei soldati in Ucraina come Russi.”

MondoPrima PaginaSpeciale Ucraina. Una guerra dimenticata nel cuore dell'Europa.The International Post

Addio Ucraina! Buongiorno repubblica!

MondoPrima PaginaSpeciale Ucraina. Una guerra dimenticata nel cuore dell'Europa.The International Post

Essere orfani di guerra in Ucraina dell’Est. Le testimonianze del dolore innocente


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog