Firenze – città dove sono nato e vivo – ci prova, in qualche modo, a essere qualcosa di più che non una semplice città d’arte da cartolina, con un centro storico trasformato in una sorta di gigantesca e alienante vetrina commerciale.
Ci prova soprattutto attraverso alcuni fiorentini e alcune fiorentine che decidono di provare a far germinare un ambiente culturale nuovo, che non viva di rendita su quanto già c'è.
Jacopo Aiazzi, classe 1985 e originario di Fiesole, è uno di questi “Don Chisciotte contro i mulini a vento”: amministra un blog personale, WildMogg, e collabora con la rivista «FUL – Firenze Urban Lifestyle».
Quest’anno ha pubblicato il suo primo romanzo, La voce dalla fogna, per i tipi di Edizioni Clandestine e vale la pena spenderci sopra due parole.
È una storia che, adottando alcuni espedienti e alcuni temi già frequentati, riesce a parlare della nostra società, ma soprattutto di noi. Jonathan è un giovane depresso e privo di prospettive, affondato un po’ da se stesso e un po’ dagli eventi della vita, che svolge un lavoro poco gratificante coltivando ambizioni letterarie, e che sembra avere migliori relazioni con i sonniferi e con il whisky che non con gli altri individui intorno a sé.
A un certo punto accade qualcosa che muta completamente la sua vita: una sorta di patto con un non meglio precisato diavolo lo porta a comporre un’opera che lo lancia verso il successo letterario, ma anche a confrontarsi drammaticamente con se stesso e con ciò che diventerà; quest’ultimo aspetto si svilupperà, infine, in una mescola di grottesca realtà e di allucinazioni e sublimazioni fuori controllo.
«È facile perdersi, ed è ancor più facile perdersi in se stessi. Lezioni che sempre si rivelano amare come una medicina scaduta».
Un aspetto tra i più interessanti de La voce dalla fogna è la sua critica neanche troppo velata alla nostra società che, con la scusa di valorizzare e liberare l’individuo, finisce spesso e volentieri per atomizzarlo e alienarlo, illudendolo al contempo di aver realizzato se stesso. Il fatto che la storia non sia ambientata in un tempo o in un luogo ben definiti contribuisce ulteriormente a renderla trasversale, generalizzabile.
Il punto saliente si ha quando il protagonista entra in contatto con un mercato culturale che punta tutto sulla creazione di un’immagine e di un personaggio mediatico – l’autore – e nulla sul contenuto e sul significato – l’opera: nessuno degli individui con cui Jonathan avrà a che fare sembra avere un particolare talento artistico o una qualsiasi qualità, sono solo tanti personaggi che marcano la loro presenza in luoghi e consumi esclusivi in cui trovano la loro unica possibile identificazione.
Non mancano dei punti deboli in questo esordio letterario. In prima istanza lo sviluppo della trama che, a fronte di una partenza convincente nel suo dissezionare fino al più piccolo particolare la condizione degradata del protagonista, inizia a perdere ritmo e mordente proprio quando si avvia al climax, mentre descrive l’illusoria ascesa del nostro, trasformandosi in un resoconto – fin troppo esuberante e abbastanza prevedibile – di eventi in cui si perde un po’ il succo della vicenda; fortunatamente riprende quota nelle concitate e allucinate battute finali.
Manca inoltre la caratterizzazione di alcuni personaggi: se si può tranquillamente comprendere la vuotezza e l’inconsistenza di alcune figure, è più complesso capire e accettare la bidimensionalità di altre che invece potrebbero e dovrebbero fare da contraltare al dissennato dilagare dell’ego di Jonathan.
Conseguentemente, lo stile narrativo riesce solo a tratti a essere incisivo e suggestivo.
Detto questo, la caratteristica più convincente del libro di Jacopo Aiazzi è la sua capacità di giocare spesso e volentieri col lettore: sfruttando due topoi letterari consolidati come il patto col demonio di faustiana memoria e il tema del doppio, l'autore inserisce progressivamente mutamenti di prospettiva e stimola così la nostra partecipazione attiva, nonché il nostro confrontarsi in maniera diretta con la storia, in prima battuta, e con noi stessi, in seconda battuta. Questo aspetto è sottolineato da una delle sentenze più felici del romanzo: «È tremendamente facile tramutarsi in giudici impietosi quando non si ricopre il ruolo del condannato».
L’invito a uscire dal nostro ego-ismo e dal nostro ego-centrismo si armonizza con la storia stessa, una storia attraversata in definitiva da tanti ego che interagiscono senza incontrarsi mai, una storia in cui è impossibile trovare o anche solo provare a edificare un solo sodalizio o rapporto umano autentico. Qui sta, a mio avviso, il cuore del romanzo, il nocciolo intorno a cui si è sviluppato il frutto letterario dell’autore.
Un frutto magari acerbo, ma che presenta già una consistenza e un gusto tutto suo.
doc. NEMO
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(Crediti immagini: Niccolò Gambassi)