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Perchè non conviene fidarsi (troppo) degli economisti

Creato il 03 giugno 2013 da Tabulerase

keynesQualche giorno fa, nel corso di un intervista che anticipava i contenuti del Festival dell’Economia che si è concluso ieri a Trento, un giornalista di un quotidiano locale ha chiesto al Premio Nobel per l’Economia James Mirrlees se ancora ritenesse valida l’indicazione da lui elaborata sul livello di tassazione ottimale alla fine degli anni settanta , quando aveva dimostrato che l’aliquota che massimizza le entrate tributarie per uno Stato deve essere pari a circa il 20%. La risposta dell’economista è utile per capire molto dei limiti e dei meriti di una delle categorie professionali più influenti del nostro tempo: “il modello che utilizzammo è ancora assolutamente valido; tuttavia, alcuni dei numeri che lo facevano girare si sono rilevati non completamente realistici; ritengo oggi che lo stesso modello indicherebbe che il livello di tassazione ideale sia grossomodo del 70%”.

Aldilà dell’apprezzamento per il fine senso dell’umorismo che rende celebri gli scozzesi in tutto il mondo, quello che con candore ammettono le parole del Professore Emerito di Cambridge è che i politici farebbero bene ad ascoltare gli esperti, senza però mai abdicare alla propria responsabilità ultima di scegliere. Usando la ragione piuttosto che la razionalità astratta di modelli che possono funzionare perfettamente e, contemporaneamente, basarsi su assunzioni totalmente sbagliate.

Il punto non è teorico, visto che appaiono essere economisti e modelli ad ispirare buona parte del dibattito che attualmente domina i media. Sulla scelta – a nostro avviso falsa -  tra “rigore” e “crescita”, così come sulla opzione più estrema di abbandonare l’Euro e risolvere la crisi cominciando a stampare carta moneta.

E, di fatti, a Trento è stato proprio Sir Mirrlees a lanciare la provocazione: conviene all’Italia e alla Spagna uscire dall’euro per abbassare in maniera drastica il costo del lavoro della propria manodopera e, dunque, la disoccupazione.

In realtà, adesso come trent’anni fa, i modelli di chi è certamente un grande matematico non tengono conto di discontinuità colossali che sono evidenti a tutti tranne a chi vive nella torre d’avorio dell’Accademia. Non è più sul costo del lavoro, o perlomeno non è solo su quello, che si compete. Sono gli stessi numeri presentati dall’economista scozzese che lo dimostrano: negli ultimi sette anni, mentre il tasso di disoccupazione dell’Italia passava dal 7,7% all’11,1%, in un altro grande Paese europeo nel quale gli operai costano più dell’Italia – si chiama Germania – lo stesso dato seguendo il percorso opposto passava dall’11,3% al 6,9%. Il vantaggio della Germania non è mai stato il costo del lavoro, ma un mix di spesa pubblica che privilegia l’educazione, la ricerca e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, laddove da noi più di un terzo delle risorse pubbliche sono destinate ai pensionati, molti dei quali usciti dal mondo del lavoro poco più che cinquantenni.

I modelli econometrici costruiti sulla base di ipotesi che potevano essere valide alla fine degli anni settanta possono, senza dubbio, consigliare ipotesi bizzarre: la ragione e l’esperienza dicono, invece, che l’Euro è l’unico alleato di chi voglia un cambiamento senza il quale l’Italia non potrà mai guarire. E ipotetiche svalutazioni sarebbero solo sollievi temporanei dalla malattia.

Non dissimile è lo scetticismo che va riservato alle teorie che guidano il fantomatico dibattito tra rigore e crescita e al quale, recentemente, hanno partecipato, da una parte, Reinhardt/ Rogoff, e, dall’altra, Krugman. Entrambe le teorie sembrano ignorare, però, che aldilà del livello assoluto della spesa pubblica – divisa eventualmente in parte corrente e investimenti – e delle entrate tributarie, esiste una realtà più articolata rispetto a quella sulla quale rifletteva Keynes quando consigliava il presidente Roosvelt come uscire dalla depressione e fare degli Stati Uniti l’economia più forte del mondo.

Non basta più oggi scavare una buca e chiedere poi agli operai di riempirla, perché conta la capacità di quella opera pubblica di rimediare ad un fallimento del mercato che non riesce a soddisfare un bisogno economico preciso. Non basta più scavare una buca, perché – come avvertiva Saviano in un’altra sala del festival dell’economia – in un contesto nel quale oltre che l’economia si è globalizzata anche la mafia, investimenti pubblici sbagliati possono essere non solo inutili, ma persino dannosi se vengono catturati dagli interessi sbagliati.

L’economia è, oggi, la disciplina che più si avvicina a ciò che un tempo era la filosofia e l’esercizio intellettuale che propone, è utile anche quando sbaglia. Gli economisti sono, però, i primi a non prendersi troppo sul serio e ad essere consapevoli che i propri modelli hanno difficoltà ad incorporare nei propri algoritmi le decisioni di milioni di persone che spesso vengono descritti meglio da chi studia le teorie del caos. Ai politici e alle opinioni pubbliche conviene, invece, ricordare sempre che la conoscenza è un atto di apprendimento responsabile nel corso del quale mai si può delegare a qualcun altro, ad un esperto, di pensare e di decidere al posto tuo.


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