“Why not stay at home?”, “Perché non starsene a casa?”, mi chiede il titolo di uno dei testi contenuti in questa raccolta ingiallita di storie, scritti di viaggio, e poesie di Aldous Huxley, che ho appena acquistato all’Arty Bees Bookshop di Wellington.
Qui in Nuova Zelanda i libri nuovi costano un sacco. Anche quelli usati in realtà si fanno pagare spesso più di quanto valgono, e così, un cartello che segnalava il venti percento di sconto su tutto è bastato a convincermi a fare un giro tra gli strabordanti scaffali di una delle librerie dell’usato più grandi del Paese, portandomi ad acquistare un vecchio volume, che, se non altro, mi ha illuminato la giornata.
Dopo aver consumato le scarpe per superare lo scaffale dei thriller, e aver, a fatica, oltrepassato quello dei libri di cucina (sarà che è quello che gli manca, ma un po’ di azione e buon cibo sembra essere ciò di cui i neozelandesi si nutrono, figurativamente), arrivo alla sezione più generale della letteratura A-Z, dove tra un autore sconosciuto e l’altro, mi capita tra le mani una pubblicazione non troppo recente di Aldous Huxley. Huxley, conosciuto principalmente per i suoi saggi distopici e il consumo e promozione di sostanze psichedeliche, è stato in realtà anche un riconosciuto scrittore di viaggio che prima di passare a temi politici ha vissuto in Toscana e poi in America, viaggiando tra India, Pakistan, e Centro America, scrivendo saggi, racconti e guide più o meno pratiche. Quello che ho in mano è un estratto da “Along the road”, pubblicato nel 1925, che mai potrebbe essere così attuale.
“Ho visto visi più allegri ad un funerale che in Piazza San Marco. Solo quando si ritrovano insieme e pretendono, per un’ora a malapena, di essere a casa propria, questi turisti appaiono veramente felici. Viene da chiedersi che ci vengano a fare all’estero.”
Questa è la prima descrizione della gran parte dei turisti secondo lo scrittore inglese, che spiega come pochi in realtà siano i viaggiatori a cui piace viaggiare. Pochi sono coloro che lo fanno spinti da curiosità, per divertimento, per vedere cose diverse. Viaggiare, per molti, è come collezionare opere d’arte, lo si fa perché i migliori lo fanno, lo si fa perché poter dire di essere stati in determinati luoghi sul globo è socialmente considerato corretto, e chi può farlo è, in qualche modo, ritenuto superiore di chi se ne sta a casa.
Un po’ come quando si compra un disco e ci deve piacere per forza, viaggiare è diventato, oggi come ieri, più un pellegrinaggio per gli snob a quei luoghi così tanto glorificati, resi così importanti dagli stessi turisti per far sì che una volta tornati a casa ci si possa vantare di aver collezionato un’altra perla, da rendere quella superiorità rispetto a chi non ha viaggiato ancora maggiore. Prendiamo Roma o Firenze ad esempio, due delle mete turistiche più famose al mondo. Il gusto per l’arte non è universale, come è possibile quindi, che migliaia di persone ogni anno si mettano in marcia per visitare chiese, cattedrali, musei e gallerie senza annoiarsi, senza ammettere di non riuscire ad apprezzarle? La società ci pone in una posizione per cui essere appassionati all’arte significa essere persone migliori, e così, giorno dopo giorno, persone da ogni angolo del mondo indossano la maschera del finto interesse e si incamminano verso queste mete, per poter poi convincere, se stessi oppure altri, di sentirsi appagate, rimanendo però, vuote.
Il vero viaggiatore è ormai un animale raro, il vero viaggiatore è l’interessato alla vita, alle cose reali, e non ha bisog