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Perché Obama ha fallito in Medio Oriente

Creato il 06 settembre 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Perché Obama ha fallito in Medio Oriente

Il 24 agosto scorso il “Wall Street Journal”, quotidiano newyorkese della Dow Jones, ha pubblicato un articolo a firma di Walter Russell Mead dal titolo The Failed Grand Strategy in the Middle East. Mead, professore di Politica estera statunitense al Bard College, è uno studioso molto influente che collabora regolarmente con varie testate ed enti, tra cui il Council on Foreign Relations. Nell’articolo s’interroga sui motivi del fallimento della strategia di Barack Obama nel Vicino e Medio Oriente.

Innanzi tutto, bisogna definire quale sia questa strategia, e Mead lo fa con una sintesi assai efficace:

Gli USA avrebbero lavorato coi gruppi islamisti moderati, come il Partito AK turco e la Fratellanza Musulmana egiziana, per rendere il Medio Oriente più democratico. Ciò avrebbe preso tre piccioni con una fava. Innanzi tutto, allineandosi a questi partiti, l’amministrazione Obama avrebbe ridotto la distanza tra il “centro moderato” del mondo musulmano e gli USA. In secondo luogo, mostrando ai musulmani che questi partiti pacifici e moderati possono ottenere risultati positivi, avrebbe isolato radicali e terroristi, marginalizzandoli ulteriormente nel mondo islamico. Infine, col supporto americano questi gruppi potevano portare la democrazia a più paesi mediorientali, portando a migliori condizioni socio-economiche, eradicando gradualmente i mali e le lagnanze che spingono alcune persone ad abbracciare gruppi fanatici e terroristi.

Secondo il professor Mead questa strategia è fallita a causa di cinque grossi errori di calcolo:

  • si è sopravvalutata la maturità e capacità politica dei gruppi islamisti supportati;
  • non si è compresa correttamente la situazione egiziana;
  • è stato sottovalutato l’impatto di questa strategia sui due tradizionali grandi alleati locali (Israele e Arabia Saudita);
  • non si sono colte le nuove dinamiche dei movimenti terroristi;
  • il costo dell’inazione in Siria è stato sottostimato.

A giudizio del commentatore statunitense, AKP e Fratelli Musulmani sono troppo autoritaristi e anti-ebraici, e comunque – soprattutto i secondi – ancora incapaci di gestire efficacemente uno Stato. In Egitto l’amministrazione Obama avrebbe visto una “rivoluzione democratica” laddove era semplicemente in atto un golpe interno al regime militare (questa tesi fu da me espressa già il 15 febbraio 2011, in contrasto alle visioni trionfalistiche allora universalmente diffuse). D’altro canto, l’allineamento USA all’islamismo moderato ha fatto infuriare tanto Israele quanto l’Arabia Saudita. Tel Aviv non ha visto di buon occhio il mutamento d’uno status quo favorevole, e non era disponibile a quelle concessioni verso i Palestinesi che erano invece richieste da Obama per ricucire i rapporti col mondo musulmano. I Saud vedono nei Fratelli Musulmani un rivale ideologico e nei Turchi un rivale geopolitico. Inoltre, a differenza del Qatar che ha posto l’enfasi della sua politica sulla diffusione della “democrazia islamica” nel mondo arabo, Riyad percepisce ciò come una minaccia e vorrebbe fissare come priorità la lotta all’Iran e al regime alawita in Siria. Spiega inoltre Mead che, lungi dall’essere indeboliti dall’uccisione di Osama Bin Laden, i gruppi terroristi si sono riorganizzati e rafforzati. Infine, è opinione del professore statunitense che i prodotti della guerra in Siria – vale a dire i drammi umanitari, le tensioni inter-confessionali e la destabilizzazione regionale – si aggravino di giorno in giorno, ma parallelamente si sia alzato anche il costo di un eventuale intervento. Per giunta, la resistenza del presidente Assad ha rafforzato la credibilità di Russia e Iran nel mondo arabo e indebolito quella degli USA. Gl’islamisti radicali sono divenuti i campioni della lotta contro il dominio sciita in Siria, accrescendone la popolarità nel mondo sunnita.

Per recuperare di fronte ai fallimenti della sua strategia (il golpe egiziano, la perdurante crisi in Siria, la perdita di popolarità degli USA nella regione ecc.), il professor Mead suggerisce a Obama alcuni punti fermi: ricostruire il rapporto con gli alleati tradizionali nella regione (Israele, i militari egiziani e la casata dei Saud); rispostare l’enfasi del discorso sulla lotta al terrorismo islamico, preparando l’opinione pubblica a una lotta lunga e aspra; concentrarsi sulla sfida dell’Iran (anche assumendo una posizione più decisa in Siria).

L’analisi del professore di Politica estera statunitense è per molti versi impeccabile. Egli sottolinea vari punti deboli della strategia di Obama e invoca un ritorno ai prìncipi di quella pre-obamiana. Malgrado i molti meriti della disamina del professor Mead, chi scrive ritiene che anche la sua analisi e la sua proposta – al pari della strategia obamiana – presentino delle pecche da non ignorare. Partiamo dalla coda, ossia dalla ricetta alternativa proposta da Mead. Quand’egli propone un ritorno alla strategia pre-obamiana, bisogna ricordarsi che l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America ha adottato un diverso approccio verso il Medio Oriente proprio perché quella strategia tradizionale aveva creato problemi difficili da gestire. Possiamo enumerarli brevemente:

  • La presenza di regimi dittatoriali e corrotti, con la loro brutalità e il loro malgoverno, ha creato quella situazione di sottosviluppo ch’è terreno di coltura ideale per i radicalismi, oltre a generare una certa pressione demografica sull’Europa.
  • Il sostegno incondizionato e acritico a Israele ne ha agevolato la svolta verso la destra radicale e l’intransigenza nella politica regionale, col procrastinarsi della questione palestinese e delle tensioni con alcuni vicini (su tutti il Libano).
  • L’appoggio all’intransigenza israeliana e il patrocinio delle dittature arabe hanno alimentato l’antiamericanismo tra le masse popolari e gl’intellettuali arabi.
  • Il favore garantito ai Saud, pur essendo ripagato con petrolio a basso costo e armate di “jihadisti” da impiegare a proprio favore in teatri come l’Afghanistan, il Caucaso o la Jugoslavia, ha però generato anche una proliferazione del wahhabismo in tutto il mondo musulmano – ivi incluse le comunità stabilitesi in Occidente. Il wahhabismo, con la sua visione purista, intransigente e aggressiva dell’Islam, rappresenta il brodo di coltura ideale di quell’estremismo islamico che ha fatto parlare di sé con atti di terrorismo eclatanti.
  • L’allineamento della politica statunitense a quella israeliana e saudita comporta inevitabilmente tensioni con la Turchia e uno scontro aperto – probabilmente fino alla guerra – con l’Iran.

Bisogna chiedersi se questa politica, che ha generato simili problematiche, sia ancora perseguibile e a che costo. La pressione delle società locali verso regimi più rappresentativi delle loro aspirazioni non potrà essere contenuta in eterno. Paradossalmente, la “Primavera Araba” ha aumentato la longevità di questi regimi politici. In Egitto, per odio e paura dei Fratelli Musulmani, ampi settori sociali che si erano ribellati contro Mubarak (cristiani, liberali, socialisti, nasseriani) hanno appoggiato il ritorno al potere diretto dei militari. Non di meno, più il tempo passa e più andrà scemando la paura per l’ipotesi dei Fratelli Musulmani, e crescendo la disapprovazione per la realtà del regime militare. Mentre l’arretratezza e la repressione forniranno le ragioni sociali del terrorismo, la diffusione del wahhabismo – messa in atto proprio da uno dei maggiori alleati segnalati da Mead, ossia l’Arabia Saudita – provvederà alla sovrastruttura ideologica. Lo stesso professore del Bard College ammette che gli USA dovrebbero prepararsi a una lunga guerra contro il terrorismo. Ma pecca già di ottimismo. Se Washington dovrà soddisfare le attese strategiche di Tel Aviv e Riyad, sarà costretta allo scontro aperto con l’asse Siria-Iran. Il che vorrebbe dire riprendere l’agenda bellica di G.W. Bush, ma consapevoli che già il suo eponimo dovette abbandonarla a causa degli eccessivi problemi incontrati in Afghanistan e Iraq. Gli USA sarebbero disposti, proprio ora che stanno disimpegnandosi da quei due paesi, a sostituirli prontamente con la Siria e l’Iran?

L’alternativa prospettata dal professor Mead può essere seducente e rassicurante sul breve termine, ma terrificante se ci figuriamo le conseguenze di medio-lungo termine. Torniamo allora a riflettere sulla strategia di Obama, così chiara e lungimirante sulla carta, ma (per ora) fallimentare alla prova dei fatti. Le cause individuate dal professor Mead sono tutte convincenti, ma se ne potrebbero trovare altre. Infatti, l’amministrazione Obama non ha perseguito la propria strategia con una coerenza assoluta. Ad esempio, nei confronti di Israele, inizialmente ha cercato di porre dei paletti, di costringere Tel Aviv a ritornare sul tavolo negoziale con posizioni più morbide; ma di fronte alla strenua opposizione di Netanyahu, Barack Obama – che per ragioni elettorali non può ignorare i quasi sei milioni e mezzo di cittadini statunitensi di religione giudaica od origine ebraica, con annesse potenti lobbies pro-israeliane – ha presto desistito. Nel 2011 gli USA hanno utilizzato il loro diritto di veto all’ONU per bloccare una risoluzione di condanna dei nuovi insediamenti israeliani nei Territori Occupati. La risoluzione della questione palestinese non sembra essersi avvicinata di un passo durante gli ultimi anni.

Veniamo all’appoggio di Obama alla diffusione della democrazia nel mondo arabo. È vero che gli USA hanno favorito, o quanto meno non sfavorito, la caduta dei regimi militari in Tunisia e in Egitto. È vero che sono addirittura intervenuti militarmente per far sì che cadesse il regime in Libia, anche se in quel caso si è trattata più di una lotta tribale che di una rivolta per la democrazia. È però altrettanto vero che la politica e i media statunitensi hanno chiuso gli occhi (e la bocca) sulla brutale repressione delle manifestazioni di protesta in Bahrayn e in Arabia Saudita, facendo capire che se per l’Occidente la democrazia è un valore universale, allora la Penisola Arabica non fa parte dell’universo.

L’appoggio degli USA ai nuovi regimi democratici non è stato né entusiastico né profondo. Sulla Tunisia, l’Egitto e la Libia (nel caso di quest’ultima, il fatto che i nuovi padroni del paese si siano affrettati ad uccidere l’Ambasciatore statunitense non ha certo giocato a loro favore) non sono piovuti aiuti finanziari, tecnici e diplomatici nella misura massima che Washington avrebbe potuto garantire. Quando i governi eletti si sono trovati in difficoltà, gli USA non si sono impegnati a difenderli. Quando il presidente egiziano Morsi si è trovato assediato dalle dimostrazioni di piazza e ricattato dai militari, gli USA sono stati “equidistanti” nelle loro dichiarazioni. Ma essere equidistanti tra un governo eletto e un aspirante golpista, tra un potere legittimo ed uno illegittimo, equivale a parteggiare per quest’ultimo. Solo quando la repressione dei militari si è fatta più brutale, Obama ha alzato la voce – salvo poi rinviare la definizione dei nuovi rapporti con l’Egitto a dopo la conclusione della nuova crisi siriana, in larga parte creata dagli USA stessi.

Gli Stati Uniti d’America di Barack Obama, l’uomo che aveva promesso il dialogo con l’Iran, non sono stati molto più teneri verso il paese persiano di quanto lo siano stati i neoconservatori. È vero che Obama ha abbandonato la retorica bellicista, fatta di continue minacce di attacco, ma passando dal campo della retorica a quello dei fatti si è dimostrato persino più aggressivo. La tornata di sanzioni più dure e menomanti per l’Iran – quelle che ne hanno colpito il sistema finanziario e monetario – è stata varata da Obama, non da Bush Jr.

La domanda sorge allora spontanea: e se la strategia di Obama avesse fallito perché è stata poco “obamiana”?


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