Perché Papa Francesco è stato in silenzio sul 24 marzo?

Creato il 25 marzo 2013 da Nicola Mente

Storia di numeri, storia di volti, storia di non-esistenze. Oggi è il 24 marzo, e l’Argentina commemora il trentasettesimo anniversario del regno del terrore. La notte del 24 marzo del 1976 la giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla pone fine al governo di Isabelita Perón con un colpo di Stato, e apre il sipario su una delle pagine più assurde ed angosciose della nostra storia recente. In sette anni di “governo”, la giunta militare argentina si impegna a realizzare il cosiddetto “Proceso de Reorganizacion Nacional”, attraverso una delle repressioni più violente e massicce che abbiano mai avuto luogo nel dopoguerra.

Nel giro di pochi anni circa 30000 persone vengono fatte dissolvere. Non uccise, ma fatte sparire nel nulla. Perché se un’uccisione, per quanto sia cruenta, si limita a distruggere una vita, una “sparizione” fa di peggio: cancella un’esistenza, trasforma l’essere in “non essere”, il concreto in “astratto”. Non dà corpo alla sofferenza, né al rispetto, anche religioso, per i morti (ricordiamo che la giunta militare argentina aveva un dichiarato crisma liberale e cattolico). Ogni anno, Plaza de Mayo si affolla di madri e nonne pronte a chiedere notizie su figli, fratelli, nipoti e mariti scomparsi nel nulla. Tra di loro, moltissimi italiani (compresa Estela Carlotto, presidentessa dell’associazione “Abuelas de Plaza de Mayo”). Figli di emigranti, che hanno dato a quella terra la conformazione socio-culturale di una costola italiana al di là dell’Oceano, componendo circa il 70% della popolazione argentina. Un massacro pianificato («Morirà il numero di persone necessarie per riuscire a conseguire la sicurezza del paese», disse Videla a pochi giorni dal suo insediamento), con una pratica solo apparentemente simile rispetto a ciò che pochi anni prima aveva avuto luogo nel Cile di Allende.

Infatti, se le immagini dell’azione di forza del generale Pinochet fecero il giro del mondo provocando indignazione da salotto, in Argentina non accadde neanche questo. I militari non vollero ripetere gli errori dei colleghi cileni (come bombardare il Palazzo Presidenziale), anche perché l’Argentina è da sempre stato un paese legato a doppia mandata con l’Europa, molto più del Cile. L’Italia sopra di tutti, ma non solo. E così, la repressione fu al silenziatore: di giorno un paese modello, di notte l’Inferno. Deportazioni, torture, voli della morte. Mentre il resto del mondo, ancora indignato dall’11 settembre cileno, sembrava non prestare attenzione, esattamente come fa oggi, nonostante le polemiche scaturite dalla recente elezione di Jorge Bergoglio (all’epoca dei fatti coordinatore provinciale della Compagnia di Gesù a Buenos Aires), accusato dal giornalista Horacio Verbitesky di sinistre responsabilità indirette su alcune deportazioni e di omertà totale sulla tragedia in toto.

Oggi, ad esempio, ci si aspettava dal neo-Papa un intervento, quantomeno per ricordare quanto l’orrore fosse prossimo e quanto la ferita fosse aperta: al contempo, era un’ottima occasione per scrollarsi le ombre di dosso. Non è avvenuto niente di tutto ciò. E qui ritorna il tema della “non-esistenza”: un tema caldo anche durante quegli anni, quando tutto l’establishment italiano (stampa compresa) mantenne un comportamento ignobile nei confronti degli avvenimenti argentini. Questo, nonostante il coinvolgimento attivo di migliaia di italiani (da Viareggio a Grottammare, dal cosentino al veneto, da Frascati al Piemonte, diversi sono i caduti “italiani” per mano di questa “Guera Sucia”) nella tragedia. Molto spesso, il silenzio angosciante degli organi di stampa era dettato da precisi equilibri geopolitici: il Corriere della Sera, ad esempio, in quegli anni non solo cercò di documentare il meno possibile sulla repressione, ma addirittura fece spostare il suo corrispondente Gian Giacomo Foà da Buenos Aires, visto che quest’ultimo aveva deciso personalmente di documentare gli orrori nascosti sotto il tappeto, contro la linea editoriale del suo giornale. Scrive la redazione di “24 marzo Onlus”:

Licio Gelli e Giulio Andreotti

«L’atteggiamento del quotidiano di via Solferino può essere spiegato considerando il fatto che la “tela” delle manovre occulte della “Loggia P2″ si estendeva, oltre che al Corriere, anche alla stessa Argentina. Autorevoli membri del regime militare argentino, come l’ammiraglio Massera e il generale Suárez Mason, erano iscritti alla loggia di Licio Gelli. Nonostante i suoi precedenti legami con la destra peronista Licio Gelli, che era stato in precedenza accreditato da Isabelita Perón come consigliere economico dell’Ambasciata d’Argentina in Roma, poté rimanere al suo posto dopo il golpe e, grazie alla protezione dei due gerarchi militari, poté incrementare i suoi “loschi” affari nell’ambito dei contratti petroliferi e del traffico delle armi con la Libia di Gheddafi e il Medio Oriente. In cambio della forte protezione dei vertici militari al potere, Gelli si impegnò con loro affinché in Italia si venisse a sapere il meno possibile della situazione interna del paese sudamericano.Da abile manovratore qual era, comprese che il miglior modo per influenzare l’opinione pubblica italiana fosse quello di informarla il meno possibile e il “Corriere della Sera”, in mano alla P2, si regolò di conseguenza, per cui le notizie provenienti dall’Argentina finivano per essere filtrate a dovere. Le più alte cariche amministrative del Corriere, infatti, erano ricoperte da affiliati alla Loggia P2: l’amministratore delegato Bruno Tassan Din, il direttore del quotidiano dall’ottobre del 1977, Franco Di Bella, e, soprattutto, lo stesso proprietario del gruppo di via Solferino, Angelo Rizzoli.

Jorge Rafael Videla

Nel luglio del 1977 Rizzoli aveva ottenuto, attraverso l’intermediazione di Licio Gelli, i fondi necessari per effettuare un’operazione di ricapitalizzazione del gruppo di venti miliardi di lire. Grazie, poi, all’amicizia tra Massera e il “Maestro Venerabile”, l’editore milanese aveva ottenuto ad un ottimo prezzo gli impianti argentini della “Editorial Abril”, la più grande casa editrice del paese espropriata ai fratelli italiani Civita di origine ebraica. In cambio di tutto ciò, Gelli ottenne da Rizzoli la garanzia che il Corriere divenisse, all’insaputa della maggioranza dei redattori, un docile strumento nella mani della P2; ciò significava, tra l’altro, mantenere un sostanziale silenzio nei confronti delle violazioni dei diritti umani compiute dai militari. Dal 1977 al 1981, perciò, gli interventi del Corriere della Sera sulla vicenda dei desaparecidos in Argentina furono molto ridotti e, nei rari casi in cui se ne occupava, solitamente era per fornire un’immagine “rassicurante” del paese».

Questo il comportamento del principale organo di stampa dell’epoca. Non diverso l’atteggiamento de l’Unità, giornale di partito che subiva forti pressioni affinché non si evidenziassero troppo le atrocità di un governo, quello di Videla e soci, molto vicino all’Urss di Breznev, soprattutto per questioni economiche. Diverso l’atteggiamento de La Repubblica, giornale fondato proprio in quegli anni, che ritenne invece di dar spazio alla vicenda. Scrisse il corrispondente da Buenos Aires, Saverio Tutino: «La disinformazione è la prima responsabile di certe semplificazioni arbitrarie. Le conseguenze possono essere gravi: un giorno potremmo essere tutti chiamati come corresponsabili di delitti pari a quelli dei criminali di guerra hitleriani».

Con una sola differenza: l’immagine. Perché non c’è tragedia senza l’immagine della tragedia, e non c’è dolore che possa essere invisibile agli occhi, e inudibile dalle orecchie. I crimini hitleriani hanno memoria fotografica vasta e ricorrente, macabra ma efficace. I desaparecidos argentini non sono immagine. Sono nomi, volti, numeri. Come disse Videla nel 1979: «El desaparecido no tiene entidad. No está. Ne muerto, ne vivo. Es desaparecido». Trentasette anni dopo, Cristina Kirchner, durante la cerimonia di commemorazione (unita al trentenario della democrazia in Argentina), spiega che «Seguir luchando por más igualdad, por los que menos tienen, para estar siempre junto a ellos es el mandato de los 30.000 desaparecidos»: ricordare, e non ripetere. Al contrario, dalle nostre parti ancora una volta si è persa l’occasione per dare forma e materia a tutta questa immane sofferenza. Ancora una volta, si è persa l’occasione per far sapere a quelle madri e a quelle nonne, madri e nonne italiane, che quelle foto rappresentano un corpo e un’essenza strappata dal mondo e da ogni forma di rispetto umano. Non sono fantasia, non sono numeri, né volti in bianco e nero. Perché, se è vero che, come disse Ludwig Wittgenstein, «l’immagine presenta la situazione nello spazio logico, il sussistere e non sussistere di stati di cose», noi tutti attendiamo il giorno in cui comprenderemo la spaventosa forza di un’assenza, senza aver bisogno di collegare la realtà alla cieca fede nella rappresentazione. Solo allora, forse, potremmo finalmente dire “Nunca más”.

(Pubblicato su “Gli Altri Online” il 24 marzo 2013)


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