L’acqua non deve essere una merce.
L’acqua non deve essere privata.
L’acqua non deve dare profitto.
Basterebbero questi slogan per riassumere i contenuti dei tre quesiti referendari promossi dal Forum Italiano Movimenti per l’Acqua e moltissime altre realtà della società civile e per i quali si raccoglieranno firme in tutto il Paese fino al prossimo 4 luglio. Tuttavia si sta parlando di una risorsa essenziale alla vita, un bene comune (e non semplicemente pubblico), collettivo, scarso. Forse qualche parola in più è giusto spenderla.
Gli obiettivi del comitato promotore sono sostanzialmente due:
- Abrogare specifiche norme che consentono e rendono obbligatoria la gestione privata dell’acqua.
- Facilitare il percorso verso la discussione di una legge d’iniziativa popolare sulla tutela e la gestione pubblica dell’acqua, depositata in Parlamento fin dal 2007, ma chiusa in un cassetto.
L’urgenza del referendum deriva dal fatto che una norma del d.lgs. “Ronchi” 135/2009 ha accelerato inesorabilmente e senza criteri un processo innescato fin dal 1994 con la Legge “Galli”: la privatizzazione dell’acqua. Badate bene, almeno sulla carta la privatizzazione non riguarda l’acqua in sé, che sarà sempre proprietà dello Stato come bene demaniale; si privatizza piuttosto il servizio idrico integrato, cioè i processi industriali di gestione della potabilizzazione, delle reti fognarie, degli acquedotti e della depurazione. Ma, appunto, si tratta di una distinzione solo formale: l’acqua per arrivare al nostro rubinetto percorre centinaia di metri, a volte anche decine di chilometri, di tubazioni che, se in mano a soggetti privati, capite che è come dire che l’acqua è stata venduta.
Il discorso intorno alla privatizzazione è difficile da sintetizzare in poche righe. Per chi volesse approfondire l’argomento posso consigliare la lettura di L’acqua è una merce del giornalista di Altreconomia Luca Martinelli, oppure la visione della puntata di Presa Diretta - “L’acqua rubata” di Riccardo Iacona.
Alcune considerazioni più generali sono però d’obbligo. Innanzitutto, la gestione dell’acqua non è una novità in molte parti d’Italia (Toscana, Umbria, Lazio) dove troviamo multinazionali (Suez), banche (Monte dei Paschi), imprenditori (Caltagirone); i casi di Arezzo e Aprilia – giusto per fare due esempi – hanno già dimostrato come l’operatore privato ricerchi unicamente e per sua natura la massimizzazione del profitto che però non coincide con un miglioramento del servizio e un abbassamento dei prezzi.
Infatti è un mito da sfatare quello secondo il quale i privati sono gli unici soggetti in grado di portare capitali, investimenti, migliorie del servizio. La realtà è totalmente diversa: ogni investimento effettuato dall’ente gestore – quasi mai di tasca propria, molto spesso rivolgendosi alle banche – è compreso per legge nella tariffa, ce lo ritroviamo nella bolletta. Come se ciò non bastasse, quella medesima tariffa garantisce anche una notevole remunerazione fissa del capitale dell’ente gestore, pari al 7%.
Vale a dire che qualsiasi operatore privato non sborsa niente; sono i cittadini, anzi, i “clienti” a pagare tutto quanto. Ricordiamoci anche che stiamo considerando un mercato sostanzialmente monopolistico, nel quale non si potrà mai parlare di liberalizzazione e non ci sarà mai concorrenza.
Se poi pensiamo che l’acqua potabile è una risorsa naturale scarsa, come si comporterà l’operatore privato per garantirsi guadagni certi? Sarà combattuto tra l’incentivarne il consumo o aumentare le tariffe a chi ne consuma di meno. Non ci sono altre possibilità.
La campagna sull’acqua pubblica sta riscuotendo un successo inaspettato e incredibile: dopo un solo mese di raccolta firme si è superata la quota minima di 500 mila firme. Segno che la democrazia diretta torna a funzionare? Speriamo davvero, soprattutto in vista del vero banco di prova della campagna referendaria fino alla prossima primavera. Naturalmente, chi non avesse ancora firmato cerchi subito il banchetto o l’iniziativa più vicina a casa su acquabenecomune.org.
Autore: Eva Gabaglio