di Luca Portaluri
Botticelli: particolare della Venere
Lasciando perdere il risparmio di muscoli facciali, che implica che chi sorride contrae molti meno muscoli di chi è adirato o nervoso, il (sor)riso è una delle poche cose che non ha età, è assolutamente bipartisan (è più accentuato nelle coalizioni politiche vincenti, comunque), quindi uno strumento democratico, e non ha religione: possono essere friabili e intensi sia i sorrisi laici che quelli derivanti da fede in Qualcosa o Qualcuno.
E’ gratuito, ancora per ora, per noi “occidentali”: chissà quanto pagherebbero di questi tempi i fratelli nordafricani o giapponesi, tribolati dalle rispettive disgrazie, per donarne uno, profondo e lungo e scevro da problemi. Lo so, questo è un terreno (ri)arso di retorica, e vischioso, perché pieno di luoghi comuni, ma nel corso degli anni, scolastici e di vita soprattutto, continuo a sentir parlare di “banalità del male” (espressione che è poi il titolo del celeberrimo libro di Hannah Arendt sul gerarca nazista Eichmann), quindi quasi naturale in un mondo ipercomplesso come il nostro: e allora perché non impiantare fin da piccoli, nelle più stupide azioni quotidiane, come nelle più delicate (che comportano scelte drastiche o potenzialmente irreversibili) il concetto di “banalità” del bene, e della sua efficacia? Sì, perché se si intende il sorriso come un seme da cui può germogliare una qualsiasi forma di comunicazione (non verbale), e i bambini piccoli ce lo spiegano divinamente con i loro musini increspati quando rispondono al nostro, di sorriso, bisognerebbe imparare a continuare ad usarlo anche in età adulta, e soprattutto IMPARARE A PENSARLO. Pensare il sorriso è un’arte non innata, qual è il sorridere, si esercita e si impara col tempo e nonostante (o a causa) delle vicissitudini della vita.
Si legga per esempio questa straordinaria poesia di Pedro Salinas (poeta spagnolo morto nel 1951).
No, tu non puoi vederle, io si. Chiare, tiepide, tonde.
piano piano vanno al loro destino:
pian piano, per staccarsi il più tardi possibile dalla tua carne.
Vanno al nulla: sono questo e null’altro:
il loro scorrere.
E in più una traccia che subito scompare.
Sono astri?
Tu non le puoi baciare.
Le bacio io per te.
Hanno un sapore; sanno dei succhi del mondo.
Che gusto nero e intenso
di terra, sole,mare! [...]
Son stelle? Sono segni?
Sono condanne o aurore?
Né al guardarle né al bacio ho appreso cos’erano.
Ciò che vogliono resta al di là. E’ sconosciuto.
E cosi pure il nome.
(se le chiamassi LACRIME nessuno mi capirebbe)
Ecco, ai tantissimi a cui ho fatto leggere questa poesia, era chiaro che le lacrime fossero o potessero essere tristi, derivanti da un’assenza o da una perdita. Per me, o per coloro che stanno imparando a PENSARE il sorriso, invece risulta altrettanto bello e dolce che siano o possano essere lacrime di intensa gioia.