Esordio ambizioso, quello del trevigiano Francesco Targhetta che, per raccontare le schizofrenie private e collettive del nostro presente, cerca (imbeccato dalla casa editrice) di rinverdire un genere, quello del romanzo in versi o del poemetto narrativo, il quale, per stare al solo secondo Novecento, conta almeno due ormai classici esempi degni di essere ricordati tra le cose migliori della nostra storia letteraria: lo sperimentalismo realistico del Pagliarani di La ragazza Carla (1962) e, all'opposto, la più che trentennale recherche (non solo familiare) de La camera da letto (1984-88) del mai troppo rimpianto Attilio Bertolucci.
E a pensarci bene mancava ancora alla già inflazionata moda dell'autofiction di questi ultimi anni l'esser declinata in salsa poetico-narrativa. Non si creda che poi ci si distanzi tanto, per il solo ardito salto mortale della forma ibrida scelta, dal pervasivo basso continuo del racconto di questi "anni difficili", più difficili degli altri. Epperò Targhetta, nel riversare sulla pagina le sue disavventure di precario, altamente specializzato, della scuola e dell'università, il condiviso sbandamento con i compagni di naufragio - i coinquilini d'un appartamento misto nella popolare via Vecellio d'una «Padova topaia» - si sforza di riprodurre un'impasse divenuta esistenziale, estesasi a macchia d'olio. Un romanzo corale, Perciò venivamo bene nelle fotografie, con il quale, da subito, sin dalle prime battute, specie per chi condivide per ragioni di biografia, comuni porzioni di destino e simili espropriazioni di sogni, non si può non entrare in ombelicale e simpatetica sintonia. O così almeno dovrebbe essere per la generazione (cui appartiene anche chi scrive) dei nati tra gli anni Settanta e Ottanta (che Targhetta qui si prova a raccontare), figli della difficoltà esponenziale dell'inserimento nel mondo del lavoro, dell'«uso improprio/della famiglia come crudo/ammortizzatore sociale», del progressivo restringersi degli orizzonti, della sensazione dominante che il gioco non valga più la candela, e che, in definitiva, vivere contro il muro (come diceva Camus) sia un vivere da cani («che non è/mal comune mezzo gaudio ma disperazione»). Storia d'una alienazione, dunque, che se ne La ragazza Carla di Pagliarani, per dirne una, stava nello squallore di vita d'una giovane dattilografa nella Milano grigia e operosa della piena industrializzazione, qui, al contrario, risiede nell'inerzia opaca d'un quotidiano, assunta quasi a radice silenziosa di contestazione. Elemento questo ulteriormente enfatizzato dal contrappunto tra il brio frenetico del ritmo impresso al racconto in versi e il referto ridondante e amplificato (che di questo chiaramente si tratta) del lento e stanco trascinarsi della vita del protagonista e dei suoi amici. Contrappunto peraltro sovente stemperato nella timbrica sulfurea, a ph appena acido, d'una ironia di cartavetro. E si trasforma anche nel dolceamaro racconto dello svogliato ammobiliare un sì precario universo: esiguo repertorio spalmato di cose, meccaniche azioni, interminati loop di cani che si mordono la coda, nel regolare incollarsi d'ogni alba al seguente tramonto; con le sole palliative interruzioni delle anestetizzanti «sbronze stornate/troppo in fretta in lucidità», della ricerca di piccoli svaghi, «minime droghe», con le quali fingere di flirtare vaghe intese con la vita d'intorno; di contro allo smisurato bisogno di «piegare in ossessione» una qualsiasi passione che distingua ed accomuni. Quando, in verità, il solo tratto da tutti condiviso è il minimo comun denominatore d'una cappa d'immobilismo cui si rimanda sin dal titolo («non si muove nessuno,/qua,/perciò veniamo bene/nelle fotografie»). Un continuum interrotto solo da sporadiche uscite dal limbo, dai saltuari periodi di momentaneo ritorno al mondo del lavoro, cui si debbono forse le pagini migliori del libro: la descrizione, in ritmata cadenza, del disagio occupazional-esistenziale (e fortemente depressivo) del lavoro ad orologeria del supplente («recuperano/tutti, è la prassi, e per gli altri/è di nuovo panchina»), precario al quadrato di questa società; il terzomondismo in caduta libera dell'esercito disarmato (neo-proletariato?) di dottori, ricercatori, cultori, assistenti universitari a gratis, fiaccati da un'overdose d'investimento culturale e formativo; il revival morettiano dell'età dell'oro dell'infanzia e dell'adolescenza, rievocate attraverso i differenti tipi di caramelle gommose e merendine (roba da: «mamma vienimi a prendere!»); l'incontro, al matrimonio d'un amico, del protagonista con un bambino, futuro alienato che reca in sé tutti i segni, le «stigmate di sconfitta», e l'io narrante che vorrebbe avvisarlo, lui così inadeguato, metterlo in guardia, aiutarlo a giocare d'anticipo.
Nessuna velleitaria frenesia, grazie a Dio, di cogliere in presa diretta l'efelidi di vent'anni di berlusconismo - appena liquidato con un'acida battuta da bar in un'iconetta en passant («quel master in gestione culturale/pagato come (stando ai giornali)/tre notti le troie nel letto del nano») -, vera ossessione d'ogni giovin scrittore italiano che si rispetti (si pensi, per dirne una, tra gli ultimi, al Paolo Di Paolo di Dove eravate tutti, altro canto generazionale, epperò quasi indigesto per la sua abitabilità prefabbricata, la civetteria naif, lo stile fintamente imbavagliato).
Insomma, Targhetta scrive sì, anche lui, con l'ambizione di consegnarci un romanzo-fotografia, la polaroid generazionale di un purgatoriale attraversamento senza redenzione, vissuto nell'attesa che si palesi qualche segno che aiuti a comprendere quanto impieghi, questa nostra stagione, a «cambiare di segno»; ma lo fa attraverso il coraggioso repechage d'una forma ibrida, quella del romanzo in versi, per tentare (rischiando quasi di riuscirvi) la difficile impresa di rinvigorire il genere, mai così logoro e spremuto come adesso, dell'autofiction, movimentare la scena letteraria, così magra e uguale a se stessa, di questi anni. Onore e merito alla ISBN che ha voluto scommettere su di lui.
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