Per la prossima lettera del mio personale percorso alfabetico tra formazione musicale e vita restiamo negli States. Lasciamo la Detroit dei Grand Funk Railroad e ci dirigiamo al capo opposto degli USA, per la precisione ce ne andiamo a Seattle, Washington. È un bel viaggetto: più di 2340 km. Potremmo farlo in moto, in auto, in aereo oppure semplicemente con la mente, come faremo noi.
In ogni caso per questo viaggio attraverso gli Stati Uniti (e, almeno nel mio caso, attraverso me stesso) avere la giusta colonna sonora di accompagnamento è essenziale. Fortunatamente per noi, possiamo servirci proprio dell’artista nella cui musica ci stiamo per tuffare. Il contesto è sempre quello dell’emergere dell’hard rock tra fine anni ’60 e inizio anni ’70, e con questa lettera torniamo sui grandi classici del rock. Insomma, non potrebbe esserci soundtrack migliore.
H come… Hendrix, Jimi
Vi consiglio: Hendrix, Jimi, Live at Woodstock
Tracklist: Introduction / Message to Love / Hear My Train A Comin’ / Spanish Castle Magic / Red House / Lover Man / Foxey Lady / Jam Back at the House / Isabella / Fire / Voodoo Child (Slight Return) / Star Spangled Banner / Purple Haze / Woodstock Improvisation / Villanova Junction / Hey Joe
Etichetta: Experience Hendrix LLC/MCA Records/Universal. Anno: 1969 (digitally remastered, 1999)
Questa storia comincia nel sedile posteriore della Ford Mondeo del babbo. Lo ricordo distintamente: è notte, siamo in viaggio verso l’Abruzzo come ogni estate, e nel mangiacassette della macchina gira un nastro che conosco bene. S’intitola Rock Legends ed è la copia su musicassetta di un CD della collana I miti del rock live, pubblicata dalla Fabbri Editori nel 1993. Come detto, è un nastro che conosco bene perché è da sempre uno dei più gettonati in macchina. Tuttavia non conosco né titoli né artisti coinvolti, eccezion fatta per l’ultima traccia che è una versione live di Yesterday dei Beatles. Ecco, quella sera succede qualcosa, si smuove un certo non so che dentro di me non appena irrompe in fade in il suono distorto, gracchiante e sanguigno di una chitarra elettrica.
Il pezzo l’ho presente eppure non mi ha mai fatto quell’effetto, non mi ha mai penetrato così. Domando al babbo, con la timidezza e l’ingenuità tipiche di un bambino, chi è che sta suonando. Mio babbo è laconico: «Andrea, questo è Jimi Hendrix». Lo sussurra quasi. In macchina dormono tutti salvo io e lui, ma non è questo il punto. Il babbo sussurra quelle parole con un tono che è un misto tra rispetto e suggestione devozionale, come se si parlasse di un vecchio dio di una religione ormai sorpassata ma ancora viva nella memoria di un ex praticante [1]. Quella sera ho scoperto Jimi Hendrix. Dato che i solisti vengono classificati per cognome, la mia H è dedicata a lui.
Scoprii Jimi Hendrix nella più tipica delle maniere, con una versione live dell’immortale e inossidabile Hey Joe. La versione contenuta nella compilation Rock Legends è quella dell’esibizione al Festival dell’Isola di Wight (1970), una delle ultime del genio chitarristico di Hendrix che terminò col famoso (e forse tragicamente premonitore) rogo della chitarra. Riprendo, a proposito dell’esecuzione del brano, le parole adottate nel fascicolo della collezione della Fabbri Editori: «La versione live libera Jimi da ogni condizionamento – l’anima blues della canzone vola sulle ali della più magica chitarra del rock. L’assolo che conclude il brano […] è esemplare delle inarrivabili doti di Hendrix» [2].
Ecco quell’assolo, climax della performance, fu probabilmente il mio biglietto di sola andata verso i territori del rock più integerrimo e violento: i fischi dei feedback elevati a componenti musicali e l’approccio selvaggio dell’esecuzione mi inchiodarono a quel sedile posteriore della macchina di cui sopra. Un fulmine mi trapassava il cervello mentre pensavo, in un periodo in cui la musica non era ancora la dannazione della mia anima, che tutta quell’amalgama elettrica era semplicemente stupenda e geniale.
Le prime impressioni di un rock grezzo, viscerale e rumoroso si imprimevano nei miei sensi e sarebbero poi ritornate a galla come reminescenze molto più in là col tempo. Per la precisione fu negli anni del liceo quando, sulla scorta della passione per l’heavy metal, recuperai tutti gli ascolti con cui ero cresciuto senza avere idea di cosa rappresentassero. In quel periodo il babbo riesumò per me dalla cantina una musicassetta, la raccolta Smash Hits della Jimi Hendrix Experience. Il «talento di Seattle» aveva oramai campo libero nell’emisfero musicale delle mie passioni. Non ci volle molto perché finalmente anche un suo CD entrasse a far parte della mia collezione: per il mio ventesimo compleanno ricevetti dalla mia ragazza di allora il doppio live di Woodstock.
Testimonianza di uno dei momenti più rappresentativi delle cultura giovanile di quegli anni, il Festival di Woodstock (1969) ospitò un assortimento a dir poco clamoroso di musicisti. L’esibizione di Jimi Hendrix, prevista in chiusura del terzo giorno, si svolse in realtà nella mattinata di lunedì quando più della metà degli spettatori aveva ormai abbandonato l’area del festival. Fu un’esibizione dilagante, durata più di due ore, che tuttavia non nacque con le migliori premesse. Eppure, come ricorda David Fricke, si trattò di uno straordinario concorso di problematiche e di estro:
At Woodstock, Jimi Hendrix faced disaster of multiple forms – the setting; a new, unwieldy, ill-prepared band; an uncharacteristic lack of confidence – and brought the sun out, sealing the hope and glory of the weekend with all the rapture he could muster. He also played an extraordinary show – long and risky; reckless, chaotic and truly moving, sometimes all at once – that caught him at the height of crisis and inspiration” [3].
I tempi della Experience erano oramai tramontati, eppure il nome di Jimi Hendrix pareva indissolubilmente legato a quel gruppo. Tant’è vero che il coordinatore Chip Monck, introducendo la performance, sbagliò la presentazione. Sul palco saliva infatti il nuovissimo progetto di Hendrix, la Gypsy Sun and Rainbows, che più che una band era un vero e proprio laboratorio aperto. Un’esperienza, una jam continua, un esperimento errabondo che infatti non avrà una lunghissima vita.
Lo stesso Hendrix si scuserà e ironizzerà sulla cosa durante tutto lo show [4] , nondimeno il concerto sarà un successo molto maggiore di quanto Hendrix avrebbe mai potuto sperare: il piglio del gruppo sintetizza infatti in una formula nuova e pionieristica tutto il retroterra della black music che caratterizza la formazione musicale di tutti i componenti (blues, rhythm’n’blues, funk, soul) con un’attitudine rock sanguigna e a tratti psichedelica. Fricke l’ha felicemente definita un «rude prototipo per un nuovo futurismo black-rock» [5].
La dimensione estemporanea della jam session si riscontra chiaramente in episodi come Jam Back At The House e Hear My Train A Comin’, anche se la dichiarazione ufficiale arriva solo durante le fasi conclusive della lunghissima esecuzione di Voodoo Child (quasi 14 minuti!) allorché Hendrix dichiara al microfono: «You can leave if you want to. We’re just jammin’, that’s all» [6]. Ma il tripudio dell’estasi sonora sarebbe arrivato solo dopo quando, nella dissolvenza finale di Voodoo Child, irrompe prepotente e violenta l’interpretazione provocatoria e rumorosa dell’inno americano Star Spangled Banner.
La chitarra di Jimi Hendrix intervalla le note dell’anthem con un effettistica visionaria, psichedelica e viscerale tesa a mimare rumori di guerra. Nell’immaginario collettivo l’esecuzione rappresenta una chiara denuncia dell’imperialismo americano e c’è da credere che potesse in effetti essere così, tuttavia lo stesso Hendrix è stato molto vago e contraddittorio nel merito della questione. Resta comunque una straordinaria testimonianza della trance musicale e stilistica del chitarrista afro-nativo. Il concerto si concluderà, al solito, con Hey Joe. E anche per me, simbolicamente, ogni volta che raggiungo la fine dell’ascolto è come se si chiudesse un cerchio.
Il concerto di Hendrix a Woodstock è una testimonianza genuina di cosa il talento e l’estro artistico di questo chitarrista fossero in grado di offrire nell’atto della performance. Parafrasando Fricke, in questo live c’è tutto: le completezze e le incompletezze dello stile hendrixiano si fluidificano qui in una formula genuina e cristallina, senza fronzolo alcuno. Io non c’ero nell’agosto del 1969. Non c’era neanche mio babbo, che era troppo giovane per un viaggio del genere. Nessun vissuto, per quanto vicino, potrà mai portarmi anche solo a intaccare la sfera sonora che deve aver avvolto Woodstock quella mattina. In compenso ogni volta che riascolto questo CD doppio ritorno a volare come l’anima blues di Jimi attraverso le corde della sua chitarra.
Ritorno a volare come allora, quando non ero che un bambino sul sedile posteriore della Mondeo del babbo. Forse è in questo volo che riesco in qualche maniera ad approssimarmi a un artista così lontano eppure così vicino. Se è vero, come dice Kandinskij, che l’artista è colui che sa toccare le chiavi che fanno vibrare le corde dell’anima, allora lo posso dire: Hendrix non suona solo una chitarra, ma anche le corde della mia anima. In una sentenza, sa suonarmi.
Grazie Maestro.
doc. NEMO
@twitTagli
[1] Ci tengo a precisare che mio babbo è sempre stato ben lontano dall’essere il tipico genitore nostalgico delle stagioni giovanili di fine anni ’60 inizio anni ’70. Anzi credo che, eccezion fatta per la musica che continuava a girare nel mangiacassette, non abbia mai esaltato le sue esperienze e i suoi vissuti legati a quegli anni. Quindi siamo ben lontani dal tipico mitomane: è solo passione musicale.
[2] I miti del rock live, vol. I, Fabbri Editori, Milano, 1993, IV di copertina.
[3] David Fricke in Live at Woodstock, CD booklet, Experience Hendrix LLC/MCA Records, 1999, p. 4. Traduzione: «A Woodstock, Jimi Hendrix affrontò una serie di molteplici disastri – il settaggio, una band nuova, ingombrante, impreparata; un’insolita sfiducia – e portò fuori il sole, suggellando la speranza e la gloria del weekend con tutta l’estasi cui potesse fare appello. Eseguì anche uno show straordinario – lungo e rischioso, temerario, caotico e veramente commovente, a volte allo stesso tempo – che lo coglie al massimo della sua crisi e della sua ispirazione».
[4] Si veda Ivi, p. 12.
[5] Ibidem.
[6] Traduzione: «Potete andare se volete. Stiamo solo improvvisando, tutto qui».