«Ho letto un testo di Spencer che dedica a ogni quartiere una parte del corpo umano per cui, per esempio, l'Esquilino era la deiezione, lo spurgo e secondo me questo è vero per Roma.»
Valerio Magrelli
Ci sono dei libri che, più di altri, possono essere annoverati tra quelli in grado di contribuire alla creazione di una “visione” della città, dove per “visione” si intende uno sguardo nutrito di tutti quegli elementi (storici, artistici, antropologici, architettonici, immaginari, culturali) che solitamente si unificano in una “estetica”. Uno di questi è senz'altro Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale di Roberto Carvelli (Edizioni Interculturali, 2004): un libro che è, per prima cosa, uno strumento, una complessa esercitazione per chi voglia approfondire quella strana “arte” che è l'osservazione/esplorazione della metropoli, che non è “semplice” flânerie, ma una sorta di disciplina. Se, infatti, Perdersi a Roma è una guida, lo è nel senso di una molteplice possibilità di sguardo sulle infinite tessere che compongono il mosaico romano e, insieme, un giacimento di informazioni, citazioni, punti di vista trasversali. Lo testimonia anche lo stesso sommario, che restituisce già una frammentazione ordinata di idee, suggestioni, memorie, consigli, letture sotto forma di capitoli. Si va dall'ingresso nella capitale all'insegna di Marco Lodoli e si segue un percorso scandito da temi e interventi-intervista di autori che indossano le vesti di altrettanti Virgilio: Erri De Luca, Sandro Veronesi, Vincenzo Cerami, Christian Raimo, Carola Susani, Mario Desiati, Sandra Petrignani, Antonella Anedda, Valerio Magrelli, Attilio Bertolucci, Sandro Onofri e tanti altri. Ma sono anche i temi di riflessione scelti da Carvelli, ad esempio la geometria della città, la seduzione del panorama, Roma e le sue rovine, gli spunti di lavoro (le materie?) che contribuiscono alla creazione di un sussidiario dell'osservatore di città. Di non poco conto, anzi, in questo senso è il ricco apparato di citazioni tratte da scrittori di ogni epoca (da Petrolini a Pasolini, da Rilke a Pirandello, da Oscar Wilde a Marguerite Duras), una sorta di nebulosa descrittiva, che diventa vertigine se passata in rassegna senza soluzione di continuità, saltabeccando da un capitolo all'altro, che rappresenta idealmente un perecchiano tentativo di “esaurire” una città che, per fortuna, non potrà mai essere esaurita perché in essa contiene infinite città: quella del cinema, delle fontane, dei bar e dei ristoranti, dei monumenti, del Grande Raccordo Anulare, delle rovine e dei misteri, dell'immigrazione, degli odori, delle borgate, degli scrittori, di Pasolini.
A tirar le somme, allora, si potrebbe dire che Perdersi a Roma sia un racconto lungo, o una raccolta di racconti legati in uno, perché, a pensarci, raccontare è, tecnicamente, il modo migliore per avere ragione di una città. Cosa, infatti, è più rassicurante per un abitante del raccontare i propri luoghi, i propri percorsi, il proprio quartiere, la propria città? Niente come il racconto è in grado di ridurre la complessità, di riportare su un unico piano ciò che, per antonomasia, è il trionfo della complessità, della stratificazione, del movimento febbrile, della velocità, della sovrapposizione, dello stimolo sensoriale, della coesistenza brulicante non solo degli uomini, ma delle case, delle piazze, degli spazi. Il racconto perimetra, sceglie un fulcro, indica un centro, ordina, conferisce senso e le parole creano, o ricreano, la città, risuonano e aderiscono all'immagine, a loro volta ri-creando un'immagine. Allora, se proprio dev'essere una guida, per quanto atipica, irregolare, laterale, Perdersi a Roma è una guida narrativa intesa nel senso, appunto, di possibilità di fare ordine, di contenere. Del resto, è impossibile vedere realmente lo spazio sconfinato: è sempre necessario per l'uomo che ci siano limiti, confini, punti di riferimento, cesure, soluzioni di continuità. Perché bisogna perdersi per non perdersi in città.
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