“Perdersi m’è dolce….”
Una volta una cara e ammirevole amica (a cui è dedicato questo post avendolo in parte ispirato) mi ha detto che nella sua vita aveva sempre preferito i percorsi impervi e non tracciati alle larghe autostrade. Al momento non avevo dato un significato particolare a quanto diceva, se non considerandolo un modo per dire che la sua vita aveva richiesto un cammino più tortuoso, imprevisto e difficile, pur se alla fine la fatica era stata ben ripagata! Poi ho letto uno strano e interessante manuale “per perdere l'orientamento” e “imparare a vagabondare senza meta” e allora ho colto meglio e apprezzato la lezione che mi veniva da quella affermazione e il suo senso più pieno e più bello, tenuto conto anche del modo, privo di rammarico, di raccontare la propria vita. In fondo, notano gli autori Kathrin Passig e Aleks Scholz (Perdersi m’è dolce…Feltrinelli), anche “Omero non avrebbe avuto granché da raccontare se Ulisse avesse scelto la via più breve per tornare a casa”! Non avere una direzione precisa, smarrirsi ed essere a volte costretti a vagabondare senza meta può essere addirittura molto divertente, pur se talora faticoso.
In fondo all’affermazione della mia amica era contenuta la “filosofia” di Passig e Scholz per i quali l’orientamento è un’illusione, e “perdersi” non è il contrario dell’orientarsi perché i veri “maestri nell’orientarsi sono anche i maestri nel perdersi”! Anzi a dire il vero è solo “chi si perde che scopre il mondo”. Anche se è difficile. E infatti ci sono voluti migliaia di anni, e faticosi e contrastati sforzi nel cambiamento della rappresentazione del mondo, per rendersi conto, per esempio, che la convinzione dell’umanità di sapere con esattezza dove si trovasse era errata.
Viene in mente, a questo proposito, la massima, spesso ripetuta come ovvia, secondo cui “chi cambia la via vecchia per la nuova…ecc.”. Da un certo punto di vista, infatti, “cambiare strada” sembrerebbe la ricetta perfetta per perdersi. Ma, notano gli autori, e non c’è motivo di dubitarne, se è vero che le strade hanno una grande importanza e sono senz’altro una grande invenzione umana, tuttavia hanno pure anche un difetto poco considerato: le strade sono convenzioni. Tra un numero infinito di percorsi possibili ne tracciano uno solo, che poi tutti seguono, ritenendolo ovvio! Il che impedisce di fare attenzione alle cose, a tutto ciò che ci circonda, che per lo più non viene nemmeno “visto”. Le strade facilitano il cammino, è vero, ci fanno risparmiare fatica, ci evitano di perdere tempo, di sprecare il tempo. ma chi l’ha detto che perdersi sia un inutile spreco di tempo? E chi ha detto che sprecare il tempo sia uno “spreco”? Se tutto andasse sempre secondo le strade o i programmi tracciati, alla fin fine, e lo dico per quelli “molto concreti”, con “i piedi per terra”, quelli a cui non piacciono fumose disquisizioni filosofiche o citazioni letterarie, non avremmo molto da raccontare neppure al ritorno dalle vacanze! o no? Imparare a perdere l’orientamento non è sempre un disastro! Vagabondare senza meta non è solo imperizia e inesperienza o assenza di direzione! Non accade anche che “perdersi” renda più intelligenti, ricchi e soddisfatti, come si può dedurre da una attenta lettura della storia degli umani? Se Colombo fosse andato dove “voleva” e dove “doveva” andare, se avesse mantenuto la “retta via”, secondo i programmi, avrebbe mai scoperto l’America e noi saremmo ancora a parlare di lui oggi? Insomma se al “perdersi” diamo un senso più generale, metaforico anche, e non solo geografico o topologico, allora “perdersi” potrebbe essere considerata una delle strategie di sopravvivenza e di conoscenza più antiche dell’umanità. Chi si perde è infatti costretto a dimenticarsi del proprio progetto originario e a inventare qualcosa, se non altro per tornare indietro. Ma questo sarebbe possibile solo se chi si perde è disposto anche a cambiare il proprio modo di vedere e immaginare il mondo intorno a sé. Se è disposto a far lavorare il cervello. A nessuno di noi piace ammettere di aver perso l’orientamento e di non avere la più pallida idea di quello che c’è da fare. Ma se si avesse il coraggio di passare all’accettazione incuriosita dello smarrimento e delle nuove esperienze possibili, senza fermarsi allo stadio della confusione e dello stupore, sarebbe come entrare “in un nuovo territorio dell’anima”. “Perdersi significa essere molto presenti a se stessi, ed essere presenti a se stessi vuol dire saper sopportare i misteri e l’incertezza. Non ci si perde, si perde se stessi…e questo implica…una capitolazione volontaria”(Rebecca Solnit). Allora si capisce anche perché “perdersi” è alla base delle strategie di conoscenza dell’umanità. Perdersi, incertezza, conoscenza, sono intimamente connessi. Che cos’è la scienza stessa se non una “relazione con l’ignoto”? Come scrivono gli autori, perdersi è un classico procedimento di “prova, sbaglia, ritenta sarai più fortunato”. E se guardiamo alla storia della scienza possiamo notare che questo è ciò che è spesso accaduto, consentendo il cammino della conoscenza e il dominio del mondo da parte dell’uomo. Non è vero che la storia della scienza ci dimostra che molte volte l’uomo si è trovato, quasi per caso, lì dove non intendeva andare? E non sono “dubbi e incertezza il motore che muove la scienza”? La scienza stessa e tutto il sapere umano non sono in fondo un operare su terreni sconosciuti? Ecco, sopportare con pazienza per un pò di tempo il non sapere può essere una qualità importante – per saper vivere – che possiamo apprendere dal "dolce perdersi”!