Alice, rispondi alle seguenti domande:
- Che mese è?
- Dove abiti?
- Dov’è il tuo ufficio?
- Quand’ è nata Anna?
- Quanti figli hai?
Se hai difficoltà a rispondere a qualcuna di queste domande apri il file “farfalla” sul tuo computer e segui immediatamente le istruzioni che trovi.
Alice Howland è una docente di psicolinguistica ad Harvard, brillante e di talento, moglie appagata e madre soddisfatta di tre figli. Una vita invidiabile e una carriera costellata da premi, riconoscimenti accademici e convegni internazionali, durante uno dei quali Alice, scrupolosa e attenta oratrice, ha un vuoto di memoria: i dati rivelano che i verbi irregolari richiedono l’accesso al … al …
Sarà stato lo stress, la menopausa, il jet lag o quello champagne di troppo, nulla del quale doversi preoccupare, fino a quando durante la sua consueta ora di jogging, Alice perde l’orientamento. È smarrita, spaventata, sola; non riesce a ricordare dove si trova, le strade della sua quotidianità le sembrano irriconoscibili, indistinte e lontane. Questo, il definitivo campanello d’allarme di un male subdolo e bastardo: l’Alzheimer.
Lisa Genova ci regala Still Alice (in italiano Perdersi): un libro dallo stile asciutto, agile, senza orpelli retorici, quasi scientifico; l’autrice è, infatti, una neuropsichiatra oltre che scrittrice. Ella dimostra estrema cura e dovizia nella descrizione dei sintomi, delle possibili (e non ancora identificate) cause e conseguenze dell’Alzheimer.
Devo dire che la proposta italiana del titolo mi è piaciuta perché è complementare a quello originale: perdere la propria identità, capacità e cognizioni non significa necessariamente perdere la dignità di individuo.
La protagonista del libro, infatti, non è solo Alice, bensì la malattia che, improvvisa, inaspettata e repentina, si proietta attraverso di lei e diluisce senza scampo la sua memoria. Sì, proprio la memoria: lo scrigno dei nostri ricordi, ciò che guida le nostre azioni nella quotidianità.
Questa storia riesce ad essere delicata, intima e sensibile e al contempo ha la capacità di veicolare informazioni tecniche utili e preziose; chiamando, con coraggio, le cose con il proprio nome, senza giri di parole. Un fine più che lodevole quello di fare chiarezza e di riportare l’attenzione su un problema, fino ad oggi, poco sollevato e che meriterebbe maggiore visibilità, visto che in Italia ogni 10 minuti qualcuno si ammala di Alzheimer.
Un messaggio forte e reale dunque, che sembra accendere una fiammella di speranza, non con lieto fine edulcorato (sarebbe poco veritiero), ma grazie ai sentimenti che restano accesi nel cuore più che nella memoria.
Fresca vincitrice dell’Oscar come migliore attrice protagonista, Julianne Moore impersona magistralmente la protagonista. Nessuna sbavatura nella sua interpretazione pulita, misurata ed essenziale. L’attrice restituisce con chiarezza la cognizione di un dolore profondo che non ha bisogno di compatimenti né patetismi.
Infatti, la scelta dei registi e sceneggiatori Richard Glatzer e Wash Moreland è stata proprio quella di non esibire il dolore con banali artifici, ma di filtrarlo attraverso le linee contratte sul volto di Alice, attraverso il suo sguardo ora opaco, quando la realtà si fa sfuocata e nebulosa, ora luminoso nei brevi sprazzi di lucidità.
Il viso della Moore catalizza l’attenzione dello spettatore e non permette di vedere altro; rende poco importante il contesto familiare, i cui membri sono alquanto stereotipati, sintetizza ad una voce fuori campo, nelle prime scene, il personaggio del neurologo e rende i luoghi privi di importanza.
Senza esagerare, oserei dire che gran parte del film si regge sulla presenza/assenza di Julianne Moore, ma una nota di merito va anche alla sensibile interpretazione di Kristen Stewart nei panni di Lydia, la figlia minore della protagonista e, alla solida presenza di Alec Baldwin che impersona il marito John.
La pellicola segue la veloce e inarrestabile demolizione della mente di Alice, alternando silenzi di buio a fulminee consapevolezze, con una sceneggiatura semplice che riesce a essere commovente senza calcare la mano sulla lacrima facile.
La fotografia segue coerentemente la nitidezza dell’interpretazione; il montaggio presenta dei tagli e delle modifiche rispetto allo svolgersi del romanzo e mira soprattutto a rendere lo scorrere del tempo relativo; non ci interessa se sia passata un’ora o un mese, perché siamo in balia della mente altalenante di Alice, annaspiamo fra le parole che si ingarbugliano e fra gesti che non le appartengono più.
Succube nel suo giovane corpo, Alice cerca una via di scampo che si rivelerà inutile; non può più controllare e gestire la mente che, giorno per giorno, saccheggia indebitamente la sua vita. Sente la mancanza di se stessa, nel momento in cui il suo ieri diventa una sempre più traballante incognita.