Tempo addietro mi sono voluto far del male guardando le vignette di un fumettista di estrema destra. Non ricordo il nome, non importa. Le tematiche sono le solite, il complotto mondiale per distruggere la società, i massoni, gli ebrei, i gay che sono pedofili eccetera.
Più che i contenuti del tutto banali mi colpiva l’impostazione del disegno, soprattutto i colori. In quei fumetti compariva quasi sempre un personaggio “positivo”, un estremista di destra ovviamente. Tutti i personaggi vestivano colorato e sgargiante, stavano tutti insieme e avevano capelli estrosi e larghi sorrisi spensierati. Il nostro personaggio “positivo”, invece aveva sempre il capo rasato e vestiva di grigio o nero, e stava sempre per conto suo guardando gli altri con disprezzo.
Quelle vignette mi hanno messo grandissima tristezza. All’inizio, certo, c’è la rabbia; persone così attirano molta rabbia e molto odio con la violenza dei loro messaggi. A volte tutto quell’odio mi fa perfino un po’ paura.
Ma io ho un vissuto un po’ particolare anche per un gay; forse è per questo che ho avuto prima di tutto un senso di tristezza.
I colori, i colori sono il linguaggio più universale. Il pittore usa i colori per trasmettere ciò che sente, e il loro significato trascende le epoche. Nero e grigio non saranno mai colori positivi e gioiosi. Sono sempre colori cupi, tristi, angiosciosi. In quale trasfigurazione dei valori vestirsi di grigio può diventare un segno di gioia e positività? Se in una vignetta vediamo una metà tutta colorata e allegra in cui la gente si diverte, e dall’altra uno tutto serio e vestito di nero e grigio che se ne sta per conto suo, a cosa pensiamo?
“Si sente escluso”.
E se proviamo a guardarla da quel punto di vista, vediamo tutta una storia diversa svolgersi davanti a noi. Tanto per cominciare quel personaggio lì sta male, sta veramente male; per questo è così arrabbiato. Si sente diverso, e forse lo è davvero, e forse per questo sta così male.
Ma perché non si apre un po’? Perché non muove un passo, perché non tende la mano e dice “posso unirmi a voi?”
L’orgoglio glielo impedisce. Ed è una barriera così forte che in effetti, quando qualcuno gli domanda “perché non unisci a noi” non può che rispondere con fierezza che quel modo di vivere non è “serio”, e quindi non lo vuole.
L’invidia dell’escluso, la rabbia dell’emarginato… Son sentimenti che possiamo capire, seppur non approvare. Possiamo chiederci da dove vengano, e fino a che punto siano comprensibili. Ma la domanda più inquietante è: possiamo aiutarlo in qualche modo?
Più che la domanda, in realtà, è inquietante la risposta. Se il colore e la gioia lo terrorizzano e feriscono, se l’orgoglio lo allontana, se la rabbia lo esclude … no, non c’è molto che possiamo fare. Perfino un’offerta d’aiuto è un’umiliazione. Forse l’unica cosa che possiamo fare è guardarci dentro e riconoscere in noi quegli stessi sentimenti; quelle sensazioni eternamente rinnegate e represse. Disprezziamo noi stessi quando le proviamo; vederele negli altri espresse apertamente ci dà l’occasione catartica di ripulircene denunciandole in lui.
Lui, l’auto-escluso, la vittima sacrificale, che da sé si immola, colui che si fa odiare una volta per tutti.
Il martire estremo, perché, come Giuda, non ha immolato la vita ma l’anima.
Ah, se solo potessimo perdonare perfino lui! Allora chiunque potrebbe essere perdonato, allora si aprirebbero per tutti le porte del Paradiso, e l’inferno resterebbe vuoto!
Ma di questo perdono neanche Dio è capace.
E noi restiamo solo degli umani. Ahi, troppo umani.