Ricevo e pubblico questo articolo di Antonio Juvarra sulla vocalità, ringraziandolo come sempre per la preferenza accordata a questo sito come mezzo di diffusione dei suoi scritti. Buona lettura.
‘PERFEZIONARE’ IL PARLATO PER CANTARE?
Alcuni teorizzano che per cantare correttamente sarebbe necessario correggere e/o ‘perfezionare’ la normale pronuncia parlata, in quanto di per sé “difettosa”, “carente” e “povera”.
In effetti, paragonando il parlato della vita quotidiana con il declamato dell’ attore teatrale, così sonoro, scandito e squillante, saremmo tentati di dedurre che il primo è qualcosa di inferiore e insignificante rispetto al secondo. Diciamo pure che il primo potrebbe apparire come la materia grezza e il secondo il ‘prodotto finito’. Questo se noi ci limitiamo a esaminare le differenze tra il parlato e il declamato (che rappresenta un’ estensione e un potenziamento del parlato), non se ci diamo la briga di analizzare i rapporti tra questi due fenomeni e il canto, che rappresenta una forma non di estensione, ma di trasfigurazione del parlato. Trasfigurazione significa che il canto mantiene ALCUNI elementi del parlato (l’ avvio del suono e il movimento articolatorio sciolto ed essenziale) e li combina con altri (un diverso spazio, originato da un diverso respiro) per dare origine a una nuova sostanza, che si pone su un piano superiore rispetto alla prima. Questo comporta che proprio gli elementi che consentono il passaggio dal parlato al declamato sono quelli che impediscono il passaggio dal parlato al canto, esattamente come gli elementi che consentono a una macchina da corsa di non andare fuori pista a causa della sua elevata velocità, ossia gli alettoni, sono anche quelli che le impediscono di volare…
Nel declamato l’ aumento dell’intensità sonora e della potenza vocale avviene per ‘detonazione’ ossia stabilendo un rapporto diretto (rudimentale e grossolano) tra articolazione e ‘motore’ della voce (quello che succede col latrato canino), invece che garantendo quell’ indipendenza sinergica, che è una delle condizioni perché la semplice articolazione del normale parlato possa diventare il ‘sintonizzatore automatico’ della voce, sintonizzatore rispetto al quale ciò che determina la potenza del suono rimane indipendente come nel violino la diteggiatura rispetto all’ arcata. Solo quando l’ articolazione parlata (rimasta naturale e non ‘lavorata’ e ‘perfezionata’) è messa in grado di assolvere a questa funzione di ‘sintonizzatore’, di ‘timone’’ e non di ‘motore’, il canto può spiegare le ali e prendere il volo. Altrimenti sarà come la gallina che usa le ali per saltellare, ignorando che, se non riesce a volare, è proprio per il peso eccessivo (peso eccessivo causato, nel caso del canto, dall’ attivazione diretta o dalla modifica della scansione articolatoria).
Alcuni teorici della ‘pronuncia perfezionata’ nel canto si premurano di precisare che questa operazione di correzione o perfezionamento non ha nulla a che fare con la trasformazione del parlato in declamato o in ‘parlato impostato’, che toglierebbe tutta la naturalezza e la spontaneità del parlato (come in effetti accade), solo che non basta negare a parole gli effetti di una cosa per provare che ciò che si propone non rappresenta proprio la causa di quegli effetti… Premesso che, considerato un qualsiasi fenomeno o una qualsiasi sostanza, questi potranno dirsi naturali, solo se sono al 100 % naturali (e non al 70 % o al 30 %), è evidente che la nozione di ‘parlato impostato’, da cui a parole questi studiosi prendono le distanze, equivale esattamente alla nozione di ‘parlato perfezionato’: infatti il semplice proposito di ‘perfezionare’ il parlato rispetto a quello che è naturalmente, porta necessariamente a ‘impostarlo’, esattamente come il semplice invito del fotografo a stare fermi è sufficiente per togliere tutta la spontaneità di atteggiamento della persona fotografata.
I sintomi di questa allergia per il parlato naturale, visto come qualcosa di “difettoso, carente e povero”, e, all’ opposto, di questa attrazione per un parlato ‘ideale’ (ideale nel senso che la sua perfezione esisterebbe solo nella mente di chi parla e poi verrebbe ‘corrotta’ dalle sue abitudini fonatorie) si esprime anche con l’idea secondo cui i dialetti e le inflessioni gergali rappresenterebbero una forma di degradazione di questa ‘perfezione’ (invece che, come in realtà sono, espressioni vive e reali del flusso della lingua in continua trasformazione), il che dimostra che questa perfezione ideale da raggiungere non è altro che la perfezione morta e imbalsamata di ogni ‘dizione’ da accademia drammatica e di ogni ‘impostazione’ della voce.
Per evitare i rischi di innaturalezza connessi al principio del ‘parlato impostato’ (o ‘perfezionato’), secondo questi teorici sarebbe sufficiente “diventare più consapevoli del rapporto tra significante e significato”, che in parole povere significa pensare di più al significato di ciò che si sta dicendo, affermazione discutibile di per sé perché implica che se nel corso di una performance vocale interviene, come normalmente accade, un momento di deconcentrazione o un calo di presenza mentale, la ‘pronuncia perfetta’ per ciò stesso cesserà di ‘funzionare’… A confermarci che questa non è un’ argomentazione, ma solo l’ espressione di un pio desiderio (non seguito da nessuna indicazione logica e concreta), è poi l’ affermazione successiva, vero e proprio lapsus meccanicistico, secondo cui nei bambini il parlato sarebbe più corretto “perché il fiato è più tonico e la muscolatura è più elastica e pronta”.
In tal modo il declamato, che era stato buttato fuori dalla porta, perché fonte di suoni falsi e artificiosi, viene fatto rientrare alla chetichella dalla finestra, travestito da ‘consapevolezza del rapporto tra significante e significato’, esattamente come il colore scuro della voce e le vocali ‘miste’ (cioè geneticamente modificate), buttati fuori dalla porta, rientrano dalla finestra come verticalizzazione dello spazio di risonanza e “briglie delle labbra” attivate (e magari fatte sporgere…)
Innanzitutto la coazione del ‘pensare di più al significato delle parole’ come mezzo per arrivare alla pronuncia ‘perfetta’, di per sé induce una tensione diffusa, in quanto implica che la normale condizione umana di ‘parlanti’ contenga in sé qualcosa di sbagliato da correggere o di carente, idea che corrisponde a pensare che per garantire la stazione eretta non sia sufficiente ‘stare in piedi’, ma occorra stare ‘in punta di piedi o che per ‘essere’, sic et simpliciter, occorra mettersi in posa e recitare. Come se la massima belcantistica ‘si canta come si parla’ volesse dire ‘si canta come si declama’ oppure ‘si canta come si parla come quando si parla in modo perfetto’. Questo sarebbe tradire e falsare il senso di questo antico detto, il cui vero significato invece è: “per quanto riguarda quell’ aspetto della voce cantata che ha a che fare con la sintonizzazione del suono, il cantante può affidarsi a qualcosa che naturalmente è già un suo tranquillo possesso: il semplice ‘dire’ della vita di ogni giorno…” Negare questa verità sarebbe come teorizzare che l’ ossigeno e l’ idrogeno hanno bisogno di essere ‘corretti’ in ossigeno e idrogeno ‘perfezionati’ o in ‘super-ossigeno’ e ‘super-idrogeno’ per poter diventare acqua… Oppure che la frase ‘parla come mangi’ voglia dire ‘parla come mangi quando sei costretto a osservare rigorosamente tutte le regole del galateo…”
Il motivo per cui l’ idea che per trovare la pronuncia ‘perfetta’ del canto, occorra approfondire mentalmente il rapporto tra significato e significante, è qualcosa che suscita una condizione di innaturalezza, è che essa induce erroneamente a pensare che sia necessaria una costante enfatizzazione espressiva del testo allo scopo di mantenere quella pronuncia ‘corretta’ che crea il canto, mentre invece nel canto il sistema di articolazione deve rimanere quel docile, invisibile (e già perfetto) servomeccanismo naturale, che già si pone al servizio e traduce immediatamente in espressione le più lievi e impercettibili intenzioni ed emozioni di noi parlanti. Solo così può realizzarsi nel canto quella nobile ‘sprezzatura’, di cui parlavano gli antichi e che è la condizione necessaria perché possa realizzarsi la dimensione ‘trascendentale’ del canto. Fare della coscienza del significato del testo il mezzo per rendere ‘perfetta’ una pronuncia che altrimenti sarebbe difettosa, oltre a essere un segno nevrotico di non accettazione di sé, è un modo per profanare i fini, riducendoli a mezzi. Infatti se la pronuncia non viene concepita come uno strumento ‘neutro’, ma è fatta dipendere per il suo corretto funzionamento da una ‘causa prima’, rappresentata dalla ‘pregnanza espressiva’ e dalla ‘coscienza’ del testo, l’obiezione che spontaneamente sorge, è la seguente. Che cosa succederebbe allora se, invece di dire parole come “Urna fatale del mio destino” o “Addio del passato bei sogni ridenti”, si dovessero dire parole come “Devo ricordarmi di comprare la carta igienica…”? Forse che allora la ‘pronuncia perfetta’ cesserebbe di ‘funzionare’ per l’assenza di quel ‘campo magnetico’ che si crea pensando al significato delle parole ? E forse che, di conseguenza, il canto precipiterebbe dalla sua dimensione trascendentale a quella banale, triviale e insignificante del parlato come l’elicottero a cui si inceppano le pale dell’ elica…?
E’ evidente come tutto ciò si rivela come un’impalcatura artificiosa che non regge, così come è evidente che è da qualche altra parte che bisogna cercare… Per farlo occorre, come sempre, riportarci alla nostra condizione di esseri umani normali ma reali, e non di esseri trascendentali ma irreali (o surreali)… Le situazioni emotive, affettive, ecc. della vita sono infinite. Ma nel passare da una situazione tranquilla, in cui magari uno dice: “Esco un attimo a prendere le sigarette…”, a una situazione in cui invece dice: “Presto, scappa, che ha preso fuoco la casa!”, non è che debba preoccuparsi di alzare preliminarmente il cursore del suo ‘articolatore’ dal livello ‘low’ al livello ‘high’ o di rendere “perfetta” la pronuncia e nemmeno di rendere “più tonica ed elastica la muscolatura” affinché la pronuncia ‘funzioni’ in modo ‘esemplare’… Automaticamente (ovvero naturalmente) e immediatamente accade che quello stesso sistema articolatorio naturale (basato su movimenti semplici ed essenziali) che crea le frasi normali e banali della vita di ogni giorno, provvederà, in risposta alla sollecitazione emotiva, ad animare l’articolazione, senza che questa degeneri in scansione rigida e meccanica, ma sempre sulla scia di quei movimenti fluidi e sciolti che creano i suoni, apparentemente “poveri, carenti e difettosi” del parlato quotidiano. E’ questo ‘grado zero’ della pronuncia, questa pronuncia ‘neutra’ ma contenente in sé tutte le potenzialità espressive, che, trapiantata nel canto (senza essere preventivamente “perfezionata”!) rappresenta il seme che diventerà la quercia e solo un idiota potrebbe pensare che per diventare quercia il seme abbia bisogno di essere ‘trattato’ e fatto assomigliare alla futura pianta…
Chi pensa che la pronuncia naturale del parlato, intesa come principio motorio universale essenziale e perfetto, abbia bisogno di essere ‘lavorata’ e migliorata con “durissima disciplina” e “maniacale precisione”, è l’ennesimo dr. Frankenstein che cocciutamente (e arrogantemente) va contro esplicite indicazioni CONTRARIE della didattica vocale belcantistica e che per ciò stesso si accinge intelligentemente a trasformare il cantante nell’ennesima marionetta vocale, buona per realizzare l’aria della bambola di Offenbach e NIENTE ALTRO…
Applicata allo studio del violino, la teoria della ‘pronuncia perfezionata’ che stimolerebbe il fiato a produrre suoni esemplari, equivarrebbe a teorizzare una diteggiatura che, perfezionata, indurrebbe l’arco a creare suoni più potenti ed espressivi… Trasferita all’ aerodinamica, equivarrebbe all’idea che, applicando gli alettoni a una macchina da corsa, questa possa volare…
In conclusione: se il parlato naturale è il seme vivo di un albero che aspetta solo di incontrare la terra (=il respiro profondo del canto) per diventare canto, il parlato ‘perfezionato’ è il vaso di terra di 5 cm. cubici, magari finemente decorato, che accoglie in sé come in una tomba il seme affinché non ‘degeneri’ in albero…
Antonio Juvarra