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Credo sia un sentimento comune tra me e i miei colleghi che i più bravi tra i nostri allievi lo sono a prescindere da noi, quando addirittura non nonostante noi. C'è una minoranza di alunni, infatti, che mostra una tale propensione per le discipline studiate e mette in gioco un tale ricchissimo arsenale di capacità da vanificare ogni progetto didattico, poiché attingono direttamente e senza sovrastrutture all'essenza del metodo e dei contenuti che vengono trasmessi. Non parlo di geni, ma proprio di ragazzi volenterosi e molto in gamba.
Se vogliamo, possiamo pensare un po' a Lisa Simpson: appare nella mediocrità ed è essa stessa una caricatura, ma non è un genio, bensì una persona sveglia, che crede in quello che fa e ha gli strumenti per perfezionarlo, in un contesto di mediocrità pago, quando non addirittura fiero, della propria mediocrità. Ragazzi così sono difficilissimi e gli insegnanti sono piuttosto propensi a relegarli all'autodidassi o a una progressiva (e talvolta irreversibile) sedazione di queste intelligenze a base di 10 stampati in serie sul registro.
Chiaro che il docente deve pensare alla classe e a innalzare il livello medio, ma non si ha il diritto per ciò di mortificare chi è bravo. D'altra parte, ci sono almeno altri due aspetti da valutare: uno, che questi sono proprio i giovani che chiedono di migliorare, mentre gli altri non se ne preoccupano o si affidano a eventuali indulti (... o commerci di indulgenze, dove ancora non è arrivato qualche Lutero). Due: che contenuti e metodi consolidati quale parte dell'insegnamento scolastico non sono l'unica via perché questi ragazzi migliorino.
Ma allora questo è un limite interno e obiettivo, una rigidità inaccettabile, di un sistema educativo. Una scuola ossessionata dalle insufficienze e che non sappia cosa fare con i più bravi non ha diritto di essere chiamata scuola. È vero: insorgono anche squallide alleanze tra genitori e figli che chiedono per quale motivo debbano migliorare, e io a questi signori non so cosa dire, se non domandare loro per quale ragione vadano a scuola. Se hanno bisogno di un pezzo di carta, se ne vadano pure nei negozi di poster o nei diplomifici a ogni angolo di strada.
Sono convinto, per esperienza, che la scuola fallisca con l'80-90% dei suoi alunni e in particolare con il 30-40% dei suoi alunni drammaticamente sotto la sufficienza, perché non sa che spazio di crescita dare a quel 5-10% di ragazzi che potrebbero raggiungere ottimi risultati, senza essere per questo esclusi dal consesso della gente civile e per bene. Lo ripeto: non dico i geni, preziosissime "anomalie", per le quali intervengono altri problemi, in specie di tipo affettivo; né parlo di infallibilità, bensì un'educazione della fallibilità.
In questo senso il problema è comune a chi prende 9 e a chi prende 2 nella versione di latino o nel compito di matematica. Perché il 10 e il 3 sono risultati ugualmente prevedibili, solo che si consideri il ragazzo e non ci si prostri ai massimi sistemi. L'attenzione al contesto non vuol dire un sistema di monitor sul mondo prima intero prima di ritenere accettabile un miglioramento del ragazzo. Né si può soffocare di didattica e didattichese il ragazzo più svogliato o meno attrezzato, relegando i suoi compagni più svegli all'autodidassi.
L'autodidassi o è una strategia didattica progettata allo scopo di un effettivo salto di qualità all'interno di un sistema educativo o è un'onta che vanifica il senso del far scuola. A parte che solo così ci si prepara alla disincentivazione culturale degli esamifici universitari, dove la massa costringe all'attestazione dei buoni risultati dell'autoapprendimento con un buon voto sul libretto; tutti i ragazzi hanno diritto a un spazi di solitudine programmata per verificare il funzionamento delle proprie risorse e l'acquisizione dei propri dati.
Se poi l'insegnante si ostina a mettere 9 perché "il 10 con me non esiste", suggerisco un valido aiuto, perché, a parte le insicurezze personali, vuol dire che non ha chiare le mete che devono raggiungere i ragazzi in quel preciso momento della loro crescita. In questo caso, l'insegnante non è obiettivamente in grado di aiutarli nel superare i limiti che gli impediscono di raggiungere l'optimum (se la parola perfezione spaventa) in quella fase del proprio percorso formativo. E vai con la corsa alla tappa successiva.
Ciò accade senz'altro con le materie umanistiche al liceo. Mentre una maestra elementare non ha nessun problema a mettere il massimo a un bambino in un dettato, un'interrogazione di letteratura italiana offre il destro a mille e più problemi e sembra coinvolga di più l'insegnante in una specie di confronto con l'alunno. Questi, talvolta, se non ne sa più del professore, riesce comunque a metterlo in difficoltà personale, perché mostra, col suo "semplice" porre delle domande, squarci di vita nei quali il docente non si era mai addentrato.
Va bene così, è normale. Se si vuole, lo dico: non so tutto. Non so neanche tutto quello che ho insegnato, se è per questo. Contenti? Bastava chiederlo. Mi aggiorno in continuazione, cresco per passione e per lavoro, cercando di sperimentarmi e di superarmi. Ma tengo sempre presente che se il mio campo d'azione ormai me lo sto progettando io, i miei alunni sono inseriti in un percorso che ha le sue staffette e ha diritto di superare ognuna di quelle tappe e che vengono valutati per ognuna di esse.
Dire che "per me il 10 non esiste" significa non essere concreti e significa dire che i ragazzi devono scavalcare momenti di vita per confrontarsi con un'immagine appannatissima di ciò che siamo noi professori. Ma significa anche ammettere implicitamente che un bambino che abbia svolto perfettamente il suo compito di asticine su un foglio non può avere 10 solo perché non conosce il valore allegorico dell'undicesimo libro delle Metamorfosi apuleiane. Ridicolo. La vita è vita in ogni momento, la scuola deve esserlo altrettanto.
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